La prima volta che mi sono imbattuto in Giordano Bruno Guerri è stato quando, anni or sono, ebbi tra mani la biografia che scrisse su Bottai. Un libro che, seguendo le orme del sommo De Felice, ribaltava, e di tanto, quella che era l’opinio corrente sui mammasantissima del regime, ovverosia canaglie e banditi. A Palazzo Venezia, il regime aveva anche uomini di talento e valore indiscutibili.
Pagine che rompevano argini; pagine che inducevano a riflettere e a ridimensionare, per certi versi, la storiografia e vulgata antifasciste.
Anni dopo, complice l’amicizia e gli incontri con Giampiero Mughini, la figura di Giordano Bruno Guerri ricorreva spesso nelle nostre chiacchierate e cene. Il nome, così altisonante, e la sua storia, irregolare e ricca di aneddoti, avevano solleticato la mia curiosità.
Nella variegata galleria di perfideinterviste, uno come Guerri mi mancava. Mi decido, così, a telefonargli per sondare la sua disponibilità e proporgli un faccia a faccia senza filtri e troppi giri di parole.
Dopo qualche settimana, lo raggiungo in un albergo dalle parti di Prati, a poche decine di metri dalla sede di mamma RAI.
Ci appartiamo in una saletta, lontano dal via vai di turisti e trolley francamente insopportabili.
Nelle ore trascorse insieme, osservandolo attentamente da vicino, mi ha dato l’idea di essere, finalmente, un uomo in pace con sé stesso. Ma il suo vagabondaggio esistenziale e intellettuale non sembra per nulla aver raggiunto il traguardo, anzi.
Giordano Bruno Guerri, con i suoi libri e l’opera, meritoria, al Vittoriale, vuole ancora dire la sua e rompere tabù.
Mi sarebbe piaciuto vederlo al Collegio Romano, come Ministro dei Beni Culturali, alle prese con gli alti burocrati, gli altolà dei sindacati, e i lavoratori pigri. Sarebbe stato davvero interessante vederlo all’opera. Ma i giochi, la diplomazia sotterranea e gli intrighi di Palazzo hanno voluto altro… Peccato!
* * *
Giordano Bruno Guerri, prima di chiamarti e proporti questa intervista, ti immaginavo già con la scorta, i lacchè, i ricevimenti, e i sindacati a importi le chiusure dei musei nei giorni di festa: cos’è successo? Chi ti ha trombato?
Non so cosa sia accaduto, nemmeno se sia stato davvero candidato, Giorgia Meloni ha detto sin dall’inizio che voleva una squadra coesa, senza battitori liberi, e io non appartengo a nessun partito. Comunque è roba vecchia, penso al futuro.
Non è che, invece, sei stato punito per la tua incompetenza ministeriale, o la tua arroganza?
Non sono incompetente: da presidente del Vittoriale ho imparato a conoscere la gestione di un Bene Culturale; e so leggere i bilanci: sono stato direttore editoriale alla Mondadori, che nel 1986 aveva un fatturato con i libri di 100 miliardi di lire l’anno. Né credo di essere arrogante, almeno per come lo si intende comunemente. Di certo, ho l’arroganza della libertà.
Che bambino eri? Rompevi i coglioni già da piccolo?
Sì, ai miei genitori e soprattutto ai maestri. Ho fatte le scuole elementari negli anni Cinquanta, quando i maestri avevano ancora la formazione e l’impostazione fasciste. Ho, per esempio, un ricordo pessimo del mio maestro, Mario Busini, che picchiava, e picchiava forte. Non l’ho mai dimenticato: quando, tanti anni fa, conducevo un programma su Rai3, una delle puntate era sulle maestrine dalla penna rossa: conclusi il programma, raccontando del maestro Busini e, guardando fisso nella camera, dissi: ti odio ancora, maestro Busini…
Perché quest’odio? Non è che eri semplicemente un asino?
Ero soltanto più intelligente di lui. Calci, schiaffi, ogni genere di sopruso; all’epoca si poteva, e i miei genitori, che erano incolti e subivano il principio di autorità, gli dicevano: lo picchi, lo picchi…
Avevi di che mangiare, o morivi di fame?
I primi anni della mia vita, furono molto duri. Mio padre, fuori di casa tutta la settimana per lavoro, ci lasciava solo mille lire, come puoi ben immaginare già all’epoca erano insufficienti. Mamma, per ovviare alla penuria dei mezzi, aveva escogitato un mezzo, dopo avermi istruito per bene.
Cioè? Fammi capire un po’…
Il venerdì andavamo al mercato e, fermandoci ai vari banchi, chiedeva al salumiere: oggi, com’è la mortadella? E il prosciutto? E’ per il mio bambino… Me ne davano un po’ da assaggiare e io, con la scusa che non mi piaceva, piluccavo di qua e di là, e facevo il pranzo. Ma, nonostante le ristrettezze e il maestro Busini, ho avuto una bella infanzia, perché sono stato molto amato.

Ho letto che hai partecipato al Sessantotto: anche tu con il pugno alzato? Non ci posso credere…!
Partecipai al Sessantotto culturalmente, perché capii che il cambiamento era possibile. Ma, come ho detto in altre circostanze, sono sempre stato un cane sciolto; la sinistra fanatica, quella maoista, non mi ha mai attirato. Ho partecipato a alcune manifestazioni, marce contro la guerra nel Vietnam. Durante un corteo, il gruppo più esagitato (tra cui io), fu portato in Questura. Nell’attesa che ci identificassero, mi accesi una sigaretta. Mi si parò un poliziotto in borghese, anche lui con la sigaretta accesa. Qui non si fuma – mi intimò – e gli risposi: ma lei fuma… In men che non si dica, mi trovai in cella. Dopo qualche ora mio padre, umiliatissimo, mi venne a riprendere dicendomi: Giordano, non infangare il nostro nome immacolato.
Che gioventù hai passato? Ricordi un momento fondante e fondamentale?
Il momento più esaltante e di gioia è stato quando andai a vivere da solo. Volevo essere indipendente e, con i soldi guadagnati dal lavoro editoriale, correggevo bozze, potetti godere per la prima volta la vera libertà. Un altro momento di grande esaltazione fu quando pubblicarono la mia tesi di laurea, quella su Bottai. Fu, ricordo, un lavoro bestiale, una tesi di 800 pagine, fatta di inediti e ricerche pazzesche. Dopo la laurea, la mandai a Laterza, che la respinse perché, forse, poco allineata alla loro linea editoriale. Non mi scoraggiai. La proposi, forse provocatoriamente, alla Feltrinelli. Brega, che all’epoca era il direttore editoriale, nonché uomo coltissimo, mi chiamò per vedermi e parlarmi. Alla fine dell’incontro disse: ho qui per lei un contrattino, se lo legga per bene… Firmai senza neanche leggere: ero troppo felice che una casa editrice come la Feltrinelli decidesse di pubblicarmi.
Quegli anni li hai spesi a studiare molto il fascismo e i suoi esponenti più importanti; da dove nasce questa tua curiosità intellettuale?
Dal fatto che, sin da ragazzino, ho amato molto la storia. Mi formavo leggendo Storia Illustrata, senza immaginare minimamente che, vent’anni dopo, ne sarei diventato direttore. Un giorno lessi, di Paolo Monelli, “Mussolini, piccolo borghese”. Il libro, sebbene ben scritto, mi lasciava perplesso, perché non considerava neppure che gli italiani potessero essere stati fascisti, e non mi capacitavo di come avessero potuto subire una simile dittatura per vent’anni. Quindi cominciai a leggere libri sul fascismo, fino a quando mi sono imbattuto in Giuseppe Bottai, una figura eccezionale, un fascista colto e ignorato dalla storiografia.
Quali storici hanno funto da riferimento?
Per il fascismo De Felice, naturalmente. Per il metodo e la scrittura Marc Bloch e gli Annales
Quali sono, secondo te, i personaggi in camicia nera che hanno avuto fascino e peso intellettuali?
Molti, per gli italiani dell’epoca. Anche i peggiori, come il teorico del razzismo Telesio Interlandi. E non è certamente un merito, né per lui né per gli italiani dell’epoca.
Degli esponenti del Gran Consiglio, quali sono stati quelli verso i quali, studiando e leggendo, hai provato disprezzo?
Stai cercando di estirparmi delle simpatie fasciste, che non ho. Ho provato disprezzo per gli opportunisti e per quelli che avevano una modestia intellettuale e politica.

Gobetti diceva che il fascismo è l’autobiografia della nazione… Lo pensi anche tu?
Mica succedono per caso, certi avvenimenti della storia. Il fascismo non si sarebbe imposto se non avesse incontrato quel tipo di italiani, in quell’epoca, pronti a subirlo.
E oggi, cosa siamo?
Abbiamo scoperto il valore della libertà, anche per avere subito quei vent’anni. Penso che siamo un grande popolo incapace di costruire un grande Stato: per problemi millenari.
Cosa pensi dell’ultimo libro di Cazzullo, “Mussolini. Il capobanda…?
Non l’ho letto, non si può leggere tutto. E’ un titolo che, probabilmente, fa vendere.
Sei invidioso, quindi, di un libro che ha venduto oltre duecentomila copie? I tuoi riscuotono così tanto successo, Giordano?
Ho superato due volte quella cifra. Ma il successo dei libri non si misura soltanto con le copie vendute. Il mio successo sta nel fatto che i miei saggi sono ancora vivi. Vai in libreria e ci trovi Giuseppe Bottai, che ha 46 anni, Rapporto al duce, che ne ha 44, Galeazzo Ciano, 42, L’Arcitaliano. Vita di Curzio Malaparte, 40, Italo Balbo, 38: e così via, tutti continuamente ristampati. E’ un risultato non comune per dei libri di storia contemporanea.
Hai scritto qualcosa di importante anche su d’Annunzio… Sei dannunziano anche nell’estetica e nel suo erotismo così perverso?
D’Annunzio è un’operazione che è venuta molto bene, dal punto di vista manageriale raddoppiando i visitatori del Vittoriale e portando i bilanci in attivo, dal punto di vista culturale perché sono riuscito a far capire, a chi ha voluto veramente capire, che il Vate non era solo quello dissoluto, quello pieno di debiti, e fascista. Ho rovesciato totalmente la sua immagine nella vulgata: è il motivo per cui vale la pena di scrivere faticosi libri di storia. Non sono un esteta, di solito prendo dall’armadio la prima cosa che mi capita. E anche sull’erotismo siamo diversi: d’Annunzio era cerebrale, fastoso anche nella seduzione; io ho cercato sempre un piacere senza complicazioni, prettamente fisico.
Quali sono i libri brutti del Vate, che cestineresti?
Più che brutti, direi superati e, inevitabilmente, dimenticati. D’Annunzio aveva una penna meravigliosa, come si fa a cestinarlo?
Vittorio Feltri ha fatto, all’Indipendente, fiutando l’aria del momento, un lavoro eccezionale… La tua, la consideri fallimentare, o giù di lì? Salvi qualcosa di quel periodo da direttore?
L’Indipendente di Feltri era un magnifico giornale. C’erano firme le più diverse: Feltri, Mughini, Massimo Fini et similia… Il giornale che ho diretto io, invece, era più riflessivo. Non davamo notizie, ma solo idee, pareri, riflessioni. Comunemente, si dice che mi abbiano licenziato perché pubblicai, sotto la testata, la frase di John Giorno “Nessun cazzo è duro come la vita”. Tutti scandalizzati, ma il vero motivo per cui si ruppero i rapporti tra me e la proprietà fu che avevo pubblicato un titolo a caratteri cubitali: “Fini sbaglia tutto su Stato e religione”. Fini era al massimo del suo potere e visibilità. Probabilmente, non chiese neanche le mie dimissioni, non occorreva perché l’editore era di Alleanza Nazionale. Ma alla fine, quando me ne andai, mi sentii liberato.
Perché?
Perché, quando sei direttore, non pensi ad altro che a trasformare quello che accade in un articolo. E’ un lavoro estenuante, massacrante mentalmente… Non ne potevo più.

Secondo te, per la carta stampata italiana, ha fatto più danni il terzismo tanto caro a Mieli, o il giornale-partito scalfariano?
Il giornale-partito, perché parte da posizione preconcette. Il terzismo può essere interpretato come una posizione opportunistica ma anche come un’apertura mentale a varie posizioni.
E il terzismo italiano pensi sia stato anche un po’ opportunistico? Con la scusa di essere equidistanti e di non prendere mai posizione, torme di intellettuali e giornalisti hanno fatto carriera e dinari…
Beh, sì.
E tu, cosa sei?
Di certo non un terzista né, tantomeno, un uomo legato a una corrente, o a un partito. Mi viene da dire: un lupo sciolto.
Hai detto: Diaco è un leccapiedi: cerca di farsi più amici possibile e di non farsi nemici. Lo pensi ancora?
Se l’ho detto, allora lo pensavo, ma parliamo di quasi vent’anni fa. Pierluigi oggi è un mio caro amico. Se fosse leccapiedi, non sarebbe possibile.
Quali sono stati, negli anni d’oro del giornalismo italiano, i più grandi leccapiedi del giornalismo italiano?
Gli anni d’oro sono stati i Settanta, e i protagonisti sono tutti morti, lasciamoli in pace.
Cosa pensi di Travaglio?
Travaglio ha fatto un giornale davvero vivace, frizzante, lo leggo sempre. Detto questo, non condivido quasi mai le sue posizioni, a partire dalla vicinanza al Movimento Cinque Stelle, una delle più grandi sciagure capitate al nostro Paese nell’ultimo mezzo secolo.
Tra i giornalisti, chi ti ha deluso di più?
Per essere deluso bisogna partire dall’ammirazione.
Come mai, Giordano, la tua firma non compare più sui giornali come editorialista? Nessuno ti vuole più?
E’ curioso il tuo approccio malevolo e maligno. E se fossi io che non ho più voglia di scrivere sui giornali?
Sovente, quando lo incontro per una delle nostre cene, Giampiero Mughini mi ricorda, sempre, che senza il tuo sostegno, “Compagni, addio”, non sarebbe mai uscito… Cosa ti spinse a pubblicarlo? Cosa avevi visto d’interessante nel libro del “Rompicazzi”?
Era un libro necessario. Con un Pci trionfante, dilagante, e con una certa nobiltà alle spalle, Mughini ha avuto il coraggio, in quel libro, di dire cosa non funzionava nelle Botteghe Oscure e nell’intellighentia di sinistra. Entrambi, lui nello scrivere e io nel pubblicarlo, abbiamo visto giusto. Stessa cosa ho fatto con il libro di Carlo Mazzantini A cercar la bella morte. Un volume che, sotto la forma del romanzo, raccontava cosa c’era nella testa dei ragazzi che andavano a Salò. Il manoscritto girava da anni nelle redazioni, tutti ne parlavano bene, ma nessuno aveva il coraggio di pubblicarlo. Appena mi nominarono direttore editoriale della Mondadori, il capo della narrativa mi disse: Giordano, c’è questo libro, bello, ma che non si può pubblicare. Dopo averlo letto, imposi la pubblicazione. Si trattava di rompere i vecchi schemi della cultura, dell’editoria e del pensiero comune. Anche commercialmente. Per esempio, con Roberto D’Agostino feci un’operazione per nulla ordinaria, all’epoca…
Cioè?
Roberto ebbe la brillante idea di propormi un libro di plastica, da leggere sotto la doccia. Gli dissi subito di sì, perché mi sembrava una genialata commerciale. Tutti a gridare allo scandalo. Ma come, la casa editrice dei Meridiani, pubblica un libro di plastica, che orrore! Fu un successo enorme, non riuscivamo a soddisfare le richieste per la difficoltà di trovare la plastica adatta.

Raccontami un altro successo.
Il libro di Gorbaciov, Perestrojka. Partecipammo a un’asta mondiale, che si teneva a New York, al telefono, di notte. Offrii, senza pensarci tanto, 250 milioni di vecchie lire. Gian Arturo Ferrari, che all’epoca dirigeva la Rizzoli, mollò la presa perché riteneva la mia proposta troppo alta. Squilla il telefono, era proprio Ferrari: Giordano, tu sei pazzo! Non recupererai mai i soldi, i libri dei politici non fanno vendere…
E invece?
Perestrojka vendette più di un milione di copie.
Quali libri, invece, ti sei lasciato sfuggire? Parlami, piuttosto, delle tue topiche… Ti sei pentito di non aver “visto” qualche libro, meritevole di essere pubblicato?
Hai voglia! In genere autori da “scoprire” dopo che avevano pubblicato il primo libro in una piccola casa editrice.
Come mai, secondo te, gli scrittori, e mi riferisco anche ai più grandi, non hanno quasi mai una buona opinione degli editori?
Perché li pensano come una mamma che non si cura abbastanza di loro.
Perché, da direttore della Mondadori, ti hanno fatto fuori? Che danni avevi combinato?
Nessun danno. Molto più semplicemente scoppiò la famosa guerra di Segrate tra Berlusconi e De Benedetti. Quando l’Ingegnere vinse, pensò bene di licenziare tutti i berlusconiani, anche se di berlusconiano non avevo nulla. Ero amico di Leonardo Mondadori.
Cos’è successo con Leonardo Mondadori? Eravate amici, se non erro… Ne avevi fatta un’altra delle tue?
E’ curioso questo tuo vedermi come un Gianburrasca. Io sono uno studioso, non hai idea di quante ore ho passato sui libri e negli archivi. In più, ho sempre voluto svolgere anche attività pratiche, in mezzo alla vita. Certo, andando spesso controcorrente: ma lo scopo non era mai “combinarne una”, direi piuttosto “rompere gli schemi”.
Per esempio, riguardo alla domanda: munito di registratore, e girando l’Italia intera, con l’aiuto di alcune ragazze, avevo scritto Io ti assolvo, un libro sui preti-confessori, un documento, secondo me, di grande rilievo, non solo religioso. Era come un esperimento in laboratorio: il momento di massimo potere, e influenza, del sacerdote sul fedele non è l’omelia dall’altare, ma la conversazione nel confessionale. E’ lì che dicono veramente quello che pensano e influenzano di più i credenti.
Cosa venne fuori?
L’immenso rilievo dato alle questioni sessuali, per esempio una volta mi finsi un industriale che metteva coloranti potenzialmente pericolosi nei cibi in scatola. Il sacerdote mi assolse per quello, purché promettessi di non farlo più, ma non voleva più quando dichiarai di avere un’amante. In genere i reati venivano perdonati, perché dopo la confessione “Dio ti ha perdonato.” La mia preoccupazione era come un confessore possa influenzare un bambino.
Embé, cosa c’entra con Leonardo, scusami…?
Mondadori era nel pieno di una crisi religiosa; stava, tra l’altro, pubblicando il primo libro scritto da un papa, Giovanni Paolo II. Rifiutò di pubblicarlo quando era già pronto per la stampa, e io ebbi la scostumatezza, e il cattivo gusto, di fare una polemica personale pesante in un’intervista che rilasciai alla Stampa. Fu uno degli atti di cui mi sono più pentito nella mia vita. Volevo bene a Leonardo, ma prevalse l’ira, il mio peccato capitale.
Chi te lo pubblicò, alla fine?
Baldini&Castoldi, però i librai facevano a gara a chi lo nascondeva meglio e i giornali non lo recensivano. Non a caso è il mio unico libro mai ristampato. Ma credo che sia un documento che verrà studiato, da qualcuno, ancora fra centinaia di anni.
Che editore è Elisabetta Sgarbi? Ho visto che ultimamente pubblichi con la Nave di Teseo
Per dirla con una battuta, è l’intelligente della famiglia. Vittorio conosce questa battuta, e non si arrabbia.

Hai detto che sei iracondo: da dove nasce questa tua fragilità?
Non è una fragilità, è una scomodità, svantaggiosa.
Cosa ti fa perdere la lucidità? Ti è mai capitato di essere violento?
L’inganno. Una volta ho menato un mio dentista, perché avevo sbagliato la cura e faceva lo strafottente.
Perché hai litigato con Aldo Busi? Hai stroncato qualche suo libro?
Stroncati? Li ho pubblicati. Aldo è un grandissimo scrittore e lo considero, al netto delle sue pecche, un uomo buono e generoso, oltre che di strepitosa intelligenza. Non ti racconto perché abbiamo litigato perché significa riaprire una ferita mai completamente rimarginata. Aldo quando rompe, è per sempre.
Avete scopato?
E perché mai?
Ma è vero che lo scrittore bresciano, proprio come te, è arrogante e vanitoso?
E’ la seconda volta che mi dai dell’arrogante. Ti sembro arrogante?
Sei un uomo di rottura. Non mi sembri proprio votato all’umiltà e modestia…
Non c’entra. Arrogante è chi manifesta una superiorità, in genere ingiustificata. Io non manifesto alcuna superiorità, dico la mia, senza curarmi se è in controtendenza, anzi andando a cercare problemi su cui si può dire qualcosa di nuovo e di diverso.
Cosa pensi di Sofri?
Ai tempi dell’Indipendente, scrissi che era giusto che stesse in galera.
Perché?
Perché era stato condannato in ogni grado di giudizio. Non è il caso di Sofri, ma prima del processo gli accusati dicono sempre “Ho fiducia nella giustizia”, smentendosi se vengono condannati. E’ un male italiano.
Hai dissipato più amori o soldi?
Più amori, perché di soldi non ne ho mai avuti veramente tanti.
Hai detto pure, per eccessiva sicumera, di essere bellissimo? Lo pensi ancora di te stesso?
Io sono molto bello, è innegabile. Sono etrusco e ho un viso etrusco, peccato nessuno se ne renda conto.
Sei ancora un uomo infedele, nonostante età, acciacchi, figli, e moglie?
Non ho acciacco alcuno, è una fissazione di voi “ragazzi” di quarant’anni credere che quelli più grandi abbiano acciacchi: senza sapere che fra pochissimi anni – o mesi – vi calerà la vista, il peggiore acciacco che possa capitare. Quanto all’età, la mia mi preoccupa solo per i figli, che sono ancora piccoli; la mia massima ambizione è diventare nonno.
Sei ambizioso, allora?
Se consideri un’ambizione voler vivere a lungo, certamente sì. Mia madre è morta l’anno scorso, a 102 anni. Mi ha anche fatto il dono di andarsene nel sonno, senza soffrire.
Non mi hai risposto, però, sulla infedeltà.
Mi vanto di essere, da ben diciassette anni, fedelissimo. Di una fedeltà spontanea, gioiosa e senza rimpianti. E poi, le allegrie di cui avrei beneficiato sarebbero state nettamente inferiori ai sensi di colpa che avrei provato.
Hai due figli piccoli, ma l’età di un nonno… Ti pesa questo stacco temporale che hai con loro?
A me no, perché sono in grado di fare quello che fa un padre quarantenne. Per dirtene una, con loro gioco persino al calcio. Mi può dare fastidio, quando andiamo a fare la spesa, che la cassiera dica: ah, paga il nonno. Però i miei figli si fanno una risata. Li cresciamo abituandoli a riconoscere i conformismi, e a non apprezzarli. Un mio aforisma, che amo e che conoscono, è “Meglio avere un padre anziano che un padre cretino”: capita a molti bambini. Poi so di essere un anticipatore, l’età della paternità si spingerà sempre più in avanti. Comunque, hanno una madre eccezionalmente intelligente e giovane.
Ti riconosci qualche mancanza verso gli altri?
Sono talmente preso da me stesso, dal mio lavoro, che spesso trascuro i rapporti umani.
Quali sono stati i tuoi compagni di avventura o disavventura a Roma?
Come ti ho detto, non coltivo particolarmente le amicizie, anche se so riconoscere gli amici veri e essere davvero amico, all’occorrenza. Per esempio, con Roberto D’Agostino, o con Mughini, non ci sentiamo mai, o quasi, ma sento di essere loro amico, perché so di che pasta sono fatti. E viceversa.
E nelle scorribande notturne, chi era il tuo compagno preferito?
Nessuno, ero un cacciatore solitario. Comunque, preferivo essere preda: è più comodo.
Nei tuoi anni romani, la Capitale la percepivi come una città tentacolare, trasgressiva?
Venivo da New York, figurati se Roma mi sembrava tentacolare e trasgressiva.
Oltre ai divertimenti, di che campavi nella città newyorkese?
Scrivevo e avevo la liquidazione dalla Mondadori.
Hai fatto qualche incontro memorabile?
Un giorno andai a trovare qualcuno sulla Cinquantaduesima. Abitava al quarto piano. Dopo averli salutati, presi l’ascensore. Dentro c’era Woody Allen. Io rimasi incantato, naturalmente. Avevo un bellissimo borsalino nero. Lo guardavo e pensavo di dire qualcosa di assolutamente intelligente. Woody mi guardava di sottecchi, timoroso che gli dicessi qualcosa, le solite cose, come puoi immaginare. I secondi passavano ma non mi veniva in mente niente da dirgli. Arrivati al pianterreno, io, ovviamente, ero amareggiato. Lui mi guarda, con il sorriso, e mi fa: you have a beautiful hat! E se ne andò…
La scorsa estate, il Vittoriale ha ospitato il monumentale Jeff Beck. Com’è nata l’idea di portarlo al museo? E’ stata scelta di puro marketing o c’era amore vero verso Jeff?
I concerti che si tengono al Vittoriale vengono gestiti a rischio d’impresa da una società esterna, guidata da Viola Costa, con la quale lavoro da oltre 10 anni. Viola, che ha i miei gusti, sceglie i concerti. Io posso esprimere qualche desiderio o, al massimo, mettere qualche veto. Beck lo volevo fortemente e sono contento sia venuto.
Che musica ascolti?
Beh, gli idoli della mia gioventù: Beatles, Rolling Stones, Pink Floyd e, tra gli italiani, De Gregori.
Che letture reputi imprescindibili?
La saggistica, ovviamente, per via del mio lavoro; ma mi tengo molto aggiornato sulla evoluzione tecnologica e sociologica, come dovrebbe fare ogni bravo storico, che studia il passato per capire il presente e progettare il futuro. Mi piace molto la letteratura anglosassone, in particolare quella americana. Ma sono attratto anche da quella israeliana e francese
Ti senti, oggi, in pace con te stesso? Hai ancora dei demoni o delle inquietudini?
Ci mancherebbe che non ne avessi, ma non vengo certo a dirli a te, come a nessuno.
