FILIPPO FACCI, IL SUICIDA DI TALENTO…

Dopo aver letto il mastodontico La Guerra dei Trent’anni – ponderoso saggio su Mani pulite – mi dissi che era giunto il momento di stanare Filippo Facci, e provare a raccontarlo a modo mio. Mi incuriosiva il suo modo di parlare, ma, soprattutto, quello che scriveva.

Ma per vederlo e provare realmente a capire chi fosse, non bastava una telefonata o, come è in uso volgarmente ora, parlargli grazie ad un video. Orrore! Giammai!

Sapevo, inoltre, che, dinanzi ad un suo sì, dovevo armarmi di bagaglio e registratore, e raggiungerlo a Milano, anzi, Milano 2. Sì, avete letto bene, Milano 2, il teatro delle prime ricchezze berlusconiane.

Quando gli scrissi per proporgli l’intervista, la sua risposta fu lapidaria: “Intanto verifico se sei un coglione. Se non lo sei, non se parla“. Mi dissi: è fatta! È il suo modo per dirmi di sì.

In una Milano calda, afosa e appiccicosa, lasciate per qualche ora le chiacchiere romane, ci diamo appuntamento dalle parti di Corso Buenos Aires, una via commerciale, piena di negozi tutti uguali e, sinceramente, tristi.

Mi raggiunge con una jeep, aria condizionata come se fossimo nella più bollente Terronia. Facci non è un uomo da tanti convenevoli e formalismi, arriva subito al sodo, ti provoca per tastare chi ha davanti. Esacerba parole e concetti per capire fino a che punto può spingersi. Andiamo a nozze, mi dico. E’ così che voglio. Ci sarà da divertirsi…

E così, il nostro viaggio verso Milano 2, divertente e turbolento per via della sua guida un po’ al limite, è stato all’insegna di improperi divertenti, sigarette accese e spente a grande velocità.

Nel tempio di Re Silvio, il silenzio si taglia a fette. È tutto curato, ordinato. Ad accoglierci indifferenti, una volta entrati, due meravigliosi gatti, che bivaccano su una poltrona.

Ma il nostro incontro, a essere sinceri, era previsto verso l’ora di pranzo; più volte gli telefono per spostare, di ora in ora, le rendez-vous. Facci, per fortuna, è di buon umore e mi aspetta.

Alle sette di sera, finalmente!, cominciamo questo faccia a faccia, dapprima in balcone, per poi, una volta sceso il buio, finire in salotto. Ogni tanto, un aereo, che si alza da Linate, squarcia il silenzio, così come il miagolio dei suoi gatti, meravigliosi Blu di Russia.

Mi diverto a solleticarlo e provocarlo. Ho la fortuna, e libertà, di potergli chiedere quello che mi va, tutto, quindi. So per certo di avere risposte secche, o argomentazioni per nulla piacione, diplomatiche, anzi. Perché, sì, il merito di Filippo Facci è che ama giocare a carte scoperte, e nel nostro lunghissimo match il baro non si è appalesato!

                                      *  *  *

Filippo Facci, a che età diventi orfano di madre?

A nove anni e in maniera del tutto inaspettata, perché non mi avevano preparato. Sapevo che era malata, non capivo bene di che cosa, andava e veniva dall’ospedale, ma la morte non era un concetto che contemplavo. Poi non lo sai mai, quanto impieghi a elaborare il lutto: forse tutta la vita.

 Hai un ricordo particolare di tua madre?

Certo, molti, ma non è roba da interviste. 

 Come ne sei venuto fuori?

Vivendo, ma anche qui: non posso sapere come avrei vissuto altrimenti. Credo che quella perdita accentuò alcuni aspetti già latenti del mio carattere, una forma di ipersensibilità che per un po’ di anni degenerò nel vittimismo e nella presunzione di capire di più perché avevo sofferto di più. 

 Chi era tuo padre?

Mio padre, come mia madre, era di origine trentina e austroungarica. Un ingegnere, un uomo quadrato ma con slanci di goliardia e di pazzia come capita tipicamente ai trentini. Come padre, un uomo assente, ma senza dolo, non ne era consapevole. Ma, in un certo senso, è stata la persona che mi ha dato la possibilità di non uccidermi finché lui fosse stato vivo.

 In che senso?

Il suicidio è una tentazione per molti, saltuariamente, anche se poi, per fortuna, pochi ne hanno il coraggio. Io, un po’ come il personaggio di Harry Haller in un romanzo di Herman Hesse, romanticamente mi diedi una scadenza: non l’avrei mai fatto sinché mio padre fosse stato vivo, mi dissi. E’ morto nel 2009, ma un mese dopo è nato mio figlio, e nuova scadenza.  

 Da ragazzino eri brutto e invisibile, agli occhi delle ragazze. Ne soffrivi? O te ne fottevi?

Non ero particolarmente brutto né invivibile, ma ero un ragazzino, come dire, beta, perdente, fuori moda in ogni cosa, squattrinato, cervellotico, con gli occhiali rotti, vestito un po’ fa hippie. Benché ne facessi una bandiera esistenziale e culturale, ne soffrivo. Ero il classico amico delle ragazze che venivano a piangermi sulla spalla per problemi sentimentali che avevano sempre con altri. 

 Per tanti anni hai vissuto al quartiere Giambellino, eri uno spiantato. Come campavi? Ho letto che scaricavi casse di frutta e verdura.

Ero già divorziato ma, come giornalista, disoccupato. Erano i tempi di Mani pulite e me ne occupavo senza un giornale dove scrivere. Ma, prima e dopo di allora, ho fatto ogni genere di lavoro: il barista, lo spalaneve, lo scaricatore di frutta all’Ortomercato (pure discriminato, perché ero bianco), l’animatore turistico – incredibile, eh? – ma anche il ghost writer, ho scritto discorsi per politici e un paio di tesi di laurea. C’è stato un momento in cui lavavo anche i morti, quelli magari straziati da incidenti violenti, una cosa fuori regola. 

 “Ogni tanto – così raccontavi – squillava il telefono: ciao Filippo, sono Bettino. Il più grande uomo che abbia mai conosciuto telefonava proprio a me”. Come hai agganciato Craxi? 

Non l’ho agganciato, gli ho telefonato e me lo passarono. Ero stato giornalista giudiziario per l’Avanti quando scoppiò Mani Pulite, e peggio di Mani pulite c’è solo essere nato al paesello tuo, San Giovanni Rotondo. Da cronista avevo scoperto molte anomalie nelle inchieste che non venivano raccontate e pubblicate, perché tutti, o quasi, erano schierati con la Procura di Milano. A un certo punto pensai di rivolgermi direttamente a Craxi per raccontargliele. Lui comunque sapeva della mia esistenza, e mi diede appuntamento al Raphael assieme a due amici. Cominciammo così. Entrammo in confidenza velocemente, ricordo un certo fastidio per la mia impudenza da parte del codazzo residuo che ancora lo attorniava. Avevo 25 anni, in effetti ero un ragazzino. 

 Perché chiamava proprio te? Cosa avevate in comune? 

Anzitutto lui non aveva quasi più nessuno, poi gli piacevano i giovani, io ero informato, ma forse anche perché, insieme a qualche altro, avevo una visione un po’ eroica della vita.

 Addirittura? Filippo e Bettino romantici, eroici?

Beh, sì, e certo non da solo. Eravamo un gruppetto di ragazzi che veniva dal nulla e che aveva tutto da perdere, questo è sicuro.

 Ti sei mai chiesto: ma perché, tra tanti, chiama proprio me?

No. Ero il miglior compromesso possibile tra una persona amica e utile. Poi certo, raccontarlo ad altri era complicato. Ma a lui davo informazioni, operavo una sorta di controspionaggio.

 Che informazioni gli davi?

Gliene davo su Mani pulite e soprattutto su Antonio Di Pietro. Le ragioni che lo spinsero a dimettersi da magistrato sono molte: ma parecchie, anche in sede giudiziaria, a Brescia, nacquero da spunti che raccolsi e disciplinai io. Anche qui: non da solo, ma credendoci, e in piena buona fede. E mi capitò di tutto. Anche che entrarono a casa mia in mia assenza e che me la misero a soqquadro casa, alla ricerca di chissà che cosa. 

 Ti spaventò?

Per niente. Mi divertiva. La cosa finì sui giornali. 

 Sì, ma non mi hai detto cosa gli raccontavi…

Lo raccontai alla magistratura di Brescia, ne scrissi in mille articoli e libri, l’ho condensato in un volume di 740 pagine uscito l’anno scorso: se vuoi, alla fine, te ne regalo una copia, pagata da me. In autunno dovrebbe anche uscire in edizione economica, La Guerra dei trent’anni.

Perché eri tanto ossessionato dal Tonino nazionale? Che cos’è che non ti piaceva di lui?

Di Pietro giunse ad avere il 95 per cento del consenso degli italiani: e parliamo di un consenso rabbioso, furente, che neanche Mussolini ebbe. Questo oggi lo rimuovono tutti. Come persona, dopo averlo studiato, lo giudicavo orribile: un italiano vero nel senso deteriore, uno sbirro profittevole, il contrario di quello che un magistrato dovrebbe essere, un furbastro che calpesterebbe anche gli amici per un presunto senso di giustizia: che è quello che fece.  

 Chi apprezzavi del Pool? Erano magistrati valenti, che indagavano su reati realmente commessi.

Qui il discorso si farebbe lungo. Che ci fosse addirittura una sorta di «racket malavitoso» lo ammise anche Craxi in Parlamento, ma il reato di finanziamento illecito ai partiti era un’altra cosa, era un sistema illegale ma spesso benvisto da ogni direzione, senza particolari vittime e carnefici, la «dazione ambientale» dicevano. Era un’ipocrisia da affrontare politicamente ma solo Craxi, diversi mesi prima di essere inquisito, ebbe il coraggio di porre il tema in Parlamento per affrontarlo politicamente. Sappiamo com’è andata. Per quanto riguarda il Pool, ho avuto una smodata ammirazione per l’eloquio di Francesco Saverio Borrelli, il capo della Procura, ma soprattutto perché wagneriano militante che pellegrinò a Bayreuth, patria tedesca di Wagner, come un paio di volte feci anch’io una ventina d’anni fa.

 Fu Craxi a raccomandarti all’Avanti? Anche tu tra i miracolati?

Ma figurarsi. Avevo già scritto per l’Unità e Repubblica, ma a 23 anni mi innamorai follemente e mi sposai nel giro di un mese, rimanendo disoccupato dopo il servizio militare. Non avevo una lira, dico una. Un mio amico socialista di Monza conosceva un caporedattore dell’Avanti, a Milano, e cominciai a scrivere da abusivo: e tale rimasi sino alla chiusura del giornale, a fine 1992. Craxi lo conobbi dopo. 

Quali sono stati i più grandi errori che ha commesso il leader socialista? 

Non partecipo volentieri a questo tipo di dibattito, non è il mio pane. L’unico errore che ammise anche lui stesso fu quello di non «uccidere il nemico», dico politicamente, quando era sugli allori. Anche perché, alla fine, fu proprio il nemico a far fuori lui. In politica il nemico lo devi uccidere a basta, non lesinare il colpo di grazia. Un esempio: all’inizio del 1992, Craxi presiedeva ancora l’Internazionale Socialista e il neonato Pds gli chiese con una lettera. che conservo e che fu scritta dal segretario Achille Occhetto, di mettere una parola buona perché il Pds entrasse nell’Internazionale. Craxi acconsentì. Poco tempo dopo il Pds occhettiano chiese la destituzione di Craxi dall’Internazionale Socialista, per via delle indagini di Mani pulite.

 Per Stefania Craxi, Hammamet era il luogo dell’esilio… Per altri, il luogo della latitanza… Anche tu saresti scappato? Ci hai mai pensato?

L’idea che fosse una vera latitanza faceva ridere. Per tutti, Craxi era un uomo in esilio, un rifugiato, un indesiderato. Un latitante non ti fa conoscere l’indirizzo dove vive, meglio: nessuno chiede un funerale di Stato per un latitante, come fecero vanamente per lui. Craxi era Tunisia e lo sapevano tutti. Solo raramente si è spostato in altri Paesi.

Quali?

Ti posso dire la Francia, altri non te ne dico, tanto non cambierebbe un cazzo.

Perché non si è fatto giudicare in Italia?

Perché quell’Italia non era più il suo Paese, quella non era più la sua giustizia, e neanche la mia: diversamente da molti, penso che abbia fatto benissimo ad andarsene. Parlo di un Paese in cui la magistratura gli negò il rientro per le cure mediche se non sotto piantonamento carcerario, e questo nonostante le richieste che il presidente del Consiglio, Massimo D’Alema, fece a Borrelli. Il primato della politica era defunto.

Da “craxiano ad personam”, come ti sei autoproclamato, non pensi di essere stato ossessionato da chi non amava Craxi?

Ossessionato… Semplicemente non c’era quasi nessun altro a farlo, voglio dire a difendere Craxi e la sua storia, che era anche la nostra. La storia di un uomo dapprima lodato e adorato che poi, in un niente, diventa il ricettacolo di tutti i mali del Paese: che dovevo fare? Chiudere gli occhi di fronte alle falsità, alle bugie, alle infamie? Suvvia.

Amato, Martelli, De Michelis: chi, dei tre, ti ha deluso di più?  E perché?

Per quel che importa, sicuramente Giuliano Amato, uno che non meriterebbe neppure di essere citato, un professorino senza dignità né spina dorsale. Per tanto tempo ho detestato anche Claudio Martelli perché aveva incarnato il ruolo del parricida, del traditore del padre che l’aveva creato dal nulla; dopo anni però l’ho rivalutato: anzitutto perché sono convinto che si sia pentito, ma soprattutto perché per giudicarlo non esiste solo il parametro Craxi. Oggi penso, senza temere smentite, che sia stato il più grande ministro della Giustizia che abbiamo mai avuto: in anni pericolosi e incredibili inventò Giovanni Falcone al Ministero e quindi la Superprocura, favorì la prima e necessaria legislazione antimafia dopo le stragi, un lavoro svolto peraltro nel totale torpore del Parlamento.

So che eri molto amico di Luca Josi… Cosa gli hai combinato per rovinare la vostra amicizia?

Era il mio migliore ma non voglio parlarne. 

Perché hai odiato Vittorio Feltri? Cosa ti ha fatto?

Feltri negli anni Novanta ha introdotto una visione molto mercatistica del giornalismo, basata sul mero numero di copie vendute: se i lettori vogliono questo, io glielo do. Quando scoppiò Mani Pulite, trasformò l’Indipendente nel giornale più forcaiolo e cinico di tutti i tempi – vendendo anche tante copie – e quindi la mia opposizione fu naturale. Credo che il vertice lo toccammo però molti anni dopo, quando, fondato Libero, dal Giornale allora diretto da Belpietro, pubblicai una pagina con delle intercettazioni telefoniche tra lui e Renato Farina, imbarazzanti per quest’ultimo. 

Eri sul suo libro nero. 

Per forza. Poi, quando tornò a Libero, tutti in redazione dicevano: Facci ha chiuso. In effetti, per un bel periodo, chiese la mia testa. Poi le cose cambiarono nel tempo. Ci conoscemmo parlando più che altro di cose non giornalistiche, e scoprimmo un’affinità naturale. Cominciammo anche a uscire a cena.  E’ stato una cosa piacevole, nell’insieme. Poteva facilmente non capitare.

Sei stato diretto da Feltri, Sallusti, Belpietro, Ferrara: chi, dei quattro, è il meno talentuoso? E perché?

Belpietro è il meno direttore e il più vicedirettore, resta naturalmente un uomo-macchina alla vecchia maniera, un cosiddetto culo di pietra, ma umanamente è arido, chiuso, iper difeso, e questo alla distanza conta. Devo a lui, anche se ora non siamo più amici, il mio arrivo a Libero: da kamikaze com’ero, nel 2009 lasciai un posto sicuro a Mediaset per seguirlo a Libero, che tutti davano per morto perché orfano del fondatore Feltri. 

Perché non siete più amici tu e Belpietro?

Sono fatti personali, anche se credo che lui non si sia posto neppure il problema. È sparito e basta. Come dicevo, umanamente è un po’ desolante. 

 Ti sei definito kamikaze. Come mai?

Perché di fatto ho bruciato ogni occasione di carriera per mantenere integro un certo mio modo di essere, o almeno, forse per consolarmi, me la racconto così. Vi fu un momento in cui Berlusconi, quando riceveva gli ospiti a casa sua, ad Arcore, gli regalava due copie dei miei libri e mi telefonava spesso. Hai presente quando si dice che hai perso il biglietto vincente della lotteria? Credo di averne persi diversi. C’è un amico che ancor oggi, quando mi telefona, esordisce così: allora, chi ha sfanculato oggi? Quale nuova occasione hai perso? 

 Sei autodistruttivo?

No, sennò – calcolando che sono partito da zero – non avrei proprio combinato nulla di nulla. Ho voluto, o creduto, di non essere però capace di essere fondamentalmente altro da me stesso. La scelta era: rimanere decentemente libero o fare tutto ciò che era necessario per ottenere certi risultati: ma non sono un martire, né un eroe, ho coscienza che si tratta anche di un limite. 

Leggendoti mi sono sempre detto che tu non c’entravi nulla con i giornali che ti hanno dato da vivere finora. Mi sbaglio? Non ti sarebbe piaciuto, vista la tua formazione, scrivere per il Corriere o Repubblica?

A parte che io a Repubblica ho iniziato – nella cronaca milanese – in realtà non mi sono mai posto davvero il problema. Io, di base, volevo scrivere, scrivere il più possibile quello che volevo, e l’ho fatto dove semplicemente me l’hanno permesso. E’ andata così. A Repubblica e al Corriere non ne l’avrebbero permesso.

Ti sei mai sentito sottovalutato?

Sì, ma succede a tutti. Non mi sono mai sentito particolarmente più bravo o migliore di altri: soltanto che, a un certo punto, in vari contesti, mi accorgevo che erano altri a essere peggiori di me. Mi ricordo quando ho cominciato a scrivere di musica classica, girando anche per l’Europa: pensavo che sarei stato stritolato dall’erudizione e dalla conoscenza dei tanti intenditori che avrei incontrato: e invece neppure per idea. Poi. Va beh, la musica è un caso particolare, perché l’ho studiata moltissimo pur lontano da circuiti professionali, ma non vale solo per la musica. In giro è pieno di zoppi vestiti da atleti.

Ti è mai capitato di essere un megalomane?

Anche questo è di molti, in qualche caso: forse di chiunque combini qualcosa nella vita. Ma i complessi di superiorità sono comunque del complesso di inferiorità visti di spalle, perché implicano sempre una differenza con gli altri.

La più grossa puttanata che hai scritto sui giornali, e di cui poi ti sei pentito amaramente?

Sinceramente non mi ricordo. 

Quante querele hai preso per quello che hai scritto?

Non so di preciso, credo sulle centocinquanta o duecento, più le cause civili, o le denunce per altri reati come violazione del segreto istruttorio o calunnia. 

E chi le ha pagate?

Molte i giornali, diverse anch’io, molte però le ho anche vinte. Con Di Pietro, per esempio. 

Anni fa, in una intervista, hai detto peste e corna di Giampiero Mughini… Perché ce l’avevi con il “rompicazzi”? 

Essenzialmente perché non lo conoscevo. Lui, sul Foglio o in tv, fu tra i primi a mischiare il serio e il faceto, era un intellettuale di tutto rispetto che mischiava temi alti a commenti sulla Juventus. Era una tendenza un po’ nuova che non mi piaceva, e che oggi è regola, normalità. Rivedendomi oggi, ero ridicolo.

E per questo banale motivo ti stava sul cazzo?

Sì, lo presi a simbolo senza neanche conoscerlo. Ci fu una piccola querelle sul Foglio. 

E poi? Cosa vi ha fatto avvicinare?

La conoscenza, come detto. Una volta ero a casa mia, nel loft che possedevo e che era stato pubblicato per pagine intere anche su un inserto del Corriere, e suonò il campanello: era lui, Mughini, inaspettatamente. Voleva vedere il loft. Poi non ricordo in che occasione, ma ammisi pubblicamente che nei suoi confronti mi ero clamorosamente sbagliato: mi piacque farlo perché non lo facevo mai.

Quand’è che farai pace con Travaglio? Come mai lo detesti così tanto?

Non so se lo detesto. Ogni volta che l’ho incontrato ho sentito un moto spontaneo di simpatia. C’è una fisiologica e opposta visione sulla giustizia e su Mani pulite, ma in realtà, a pensarci, non abbiamo mai recuperato dopo che una volta aveva sfottuto vari personaggi per i loro difetti fisici, tipo «donna cannone, donna barbuta» a Giuliano Ferrara, volgarmente «accucciata» parlando di Ritanna Armeni, «la vocina del padrone» a Mario Giordano, roba così. Di me si è sempre inventato che mi tingevo i capelli, meglio, che avevo le mèche. In queste cose è un po’ un fascistello da oratorio. 

Lo stimi?

Non lo conosco abbastanza. Non mi piacciono sicuramente le battaglie che porta avanti.

Ti piace la sua scrittura?

Potrebbe fare meglio, però quando scrive sa farsi capire. Sembra poco, non lo è. 

 Scrivendo di musica classica, ci puoi raccontare chi sono i mammasantissima intoccabili nostrani?

Non ce ne sono più.

E Riccardo Muti, scusa, non è ancora un grande?

Nel senso di potere, lo era. Muti è stato il mio Di Pietro musicale. Finché è stato alla Scala, era intoccabile come pochi altri casi che abbia mai conosciuto. 

Perché? Cosa faceva quando lo criticavi?

Non si poteva proprio criticarlo. Era molto più facile parlar male di un politico che di Muti. Al Corriere della Sera, a far da guardiani, aveva Paolo Isotta e altre vestali, al Giornale c’era Fedele Confalonieri, che di Muti era pazzo… 

Era permaloso?

Una sera uscii a cena con parte dei suoi orchestrali scaligeri e lo raccontai sul Giornale. Belpietro, che era direttore, diceva sempre che nessun mio articolo sarebbe mai uscito senza che lui prima lo controllasse: ma quella volta, scrivendo di musica, evidentemente mi trascurò. Ma i miei articoli, essendo anche un po’ tecnici, passavano sempre il vaglio. Quella volta, probabilmente, sorvolò. Avrà pensato: Facci scrive di musica, almeno su questo non farà danni. Sbagliava. La piena libertà poi me lo potei concedere solo sul Foglio, quando il giornale di Ferrara era il vertice del pensiero politico e culturale italiano, dove scrivevano veri fenomeni. Nei fatti diedi il colpo di Grazia alle dimissioni di Muti dalla Scala. 

Rinfrescaci la memoria. Cosa avevi scoperto?

Nel marzo 2005 Ferrara mi diede il via libera per pubblicare sul Foglio un mega-ritratto di Muti destinato a cozzare clamorosamente contro l’apparato che lo proteggeva. Il giorno della pubblicazione era un sabato: Muti lesse l’articolo, telefonò a Fedele Confalonieri e gli comunicò le proprie dimissioni dal Teatro alla Scala, dov’era stato direttore di ogni cosa per quasi vent’anni: si sentiva tradito politicamente – dopo esserlo stato clamorosamente dai suoi stessi orchestrali – dopodiché Confalonieri, imbufalito, telefonò a Ferrara, che infine telefonò a me: «Hai fatto il botto», mi disse. Nei giorni successivi ricevetti le telefonate più impensabili: mi contattarono persino due celeberrime bacchette straniere (oggi scomparse) che misero a dura prova il mio inglese incespicante, e mi chiamò anche Franco Zeffirelli, che non conoscevo ma che mi voleva assolutamente a pranzo nella sua villa: rifiutai per timidezza. Conservo ancora i bigliettini autografi del più grande dei critici musicali, Paolo Isotta: veleno puro. 

Chi fu il direttore che bloccò l’intervista che avevi fatto a Previti? 

Belpietro, che però fece bene. Previti era intrattabile. Aveva sfanculato non so quanti colleghi del Giornale che avevano provato a intervistarlo. Belpietro allora mi chiamò e mi disse: provaci tu, fai un’intervista vera. Ma Previti aveva già pronte le risposte senza aver visto le domande. Fu un calvario. Prima della pubblicazione, Previti chiese di vedere l’intervista: mi opposi. Dopo vari tira e molla – con lui che chiamava sempre Berlusconi perché intervenisse – acconsentii a mandargli solo virgolettato delle sue risposte. Ma neanche bastò. Voleva leggere l’inizio dell’intervista, «l’attacco«, poi il titolo, persino vedere le fotografie. 

Belpietro ricevette delle pressioni?

Sì, e anch’io. Berlusconi chiamò un sacco di volte: vi prego, accontentatelo, diceva, non ne posso più.

Cosa gli avevi chiesto di così scorticante o perfido?

Niente di speciale, era sotto inchiesta per le vicende legate al “Porto delle Nebbie”, il tribunale di Roma, e per le quali poi fu anche condannato. Mica potevo pubblicare solo le sue tesi difensive. Era pur sempre un’intervista del Giornale a Previti: che paura doveva avere? 

Ci sono delle penne, oggi, che leggi con piacere e ammirazione?

Più di chiunque Sergio Romano. Poi Giuliano Ferrara, se m’interessa il tema. Ma sono tanti: Mattia Feltri, Michele Serra, Massimo Fini quand’è ispirato e non ricicla solo vecchi articoli… sono tanti.

Aduli più le donne o i direttori? Dimmi la verità!

Adulare? Io? Sei male informato. Ho il difetto opposto. 

Non ti mai capitato? Non ci credo…

Non sono proprio capace, è un mio limite. Le volte in cui ho provato a farlo ho ottenuto risultati grotteschi, ridicoli.

“Succede spessissimo che io picchi le donne”, così hai detto un anno fa. Cosa sono i tuoi? Giochi erotici o raptus di follia?

Detta così è una sciocchezza provocatoria, riportata male forse anche per colpa mia: in realtà non mi capita niente del genere, anche perché sono felicemente fidanzato da sei anni, e poi, se fosse vero, dovrei essere in galera. Dissi solo che mi era capitato – perché capita – d’aver incontrato donne a cui piaceva essere menate, che magari ti dicono “prendimi a schiaffi”. Ma se una qualsiasi di queste donne, il giorno dopo, fosse andata da un magistrato e dicesse “tizio mi ha picchiata”, beh, in quest’epoca è in grado comunque di rovinarti. 

Sei un uomo fragile di nervi? Sai essere violento con le persone?

Sono due cose diverse. Non sono un uomo fragile di nervi, anzi, spesso ho eccessi di sangue freddo che però mi rendono particolarmente adatti per attività come l’alpinismo, anche se adesso sono un po’ invecchiato per praticarlo. Quanto alla violenza… da ragazzino ero gandhiano, ora decisamente non più. Non ho problemi a colpire per primo.  

Quante volte sei stato cornificato?

E chi può dirlo? È capitato, e lo so, ma chissà quante non le so. In generale però ho avuto fidanzamenti intensi e senza tregua che non davano molto motivo di cercare altro. 

In che senso senza tregua?

Beh, se hai rapporti tutti i giorni, o quasi, è più difficile che una donna ti tradisca. 

Scopi ancora?

Sarebbe preoccupante il contrario, ma la tua domanda ha un senso perché qualche anno fa, precisamente sei, ripresi a farlo dopo un lungo periodo di astinenza: mi ero proprio stufato della dittatura del sesso, di questa cosa per cui, a leggere in giro, sembra sempre che tutti scopino continuamente per tutto il giorno con tutti. Che non è vero: credo, anzi, che sia il periodo storico in cui lo si faccia meno. Nel 2017 stavo accordandomi con Rizzoli per fare un libro che si titolasse «Per farla finita con il sesso», dove sostenere che era onnipresente e sopravvalutato, ma culturalmente, come dire, una retroguardia, una cosa dimostrativa da neri o da portoricani. Cazzate. Non mi vergogno a confessare che il vero sesso l’ho scoperto dal 2017 in poi.

Perché l’hai scoperto così tardi? Raccontami.

Son cose mie, ma posso metterla così: una persona mi ha fatto capire – e non ci avrei scommesso un euro – che l’antinomia tra la madonna e la prostituta (una delle due prima o poi vince sull’altra) possono incredibilmente farle coesistere. E anche a lungo. 

Quante volte ti è capitato di andare a mignotte? Ti eccita pagare?

Ma per carità. E comunque mignotte lo dite voi terroni. Ci ho provato una volta sola, credo nel 1995, perché mi dicevo che almeno una volta nella vita bisognava provare, era un’esperienza, se non altro anche letteraria. Beh, fu la cosa più sfigata di tutti i tempi.

Cioè?

Abitavo a Milano in viale dei Mille. Lei si chiamava Maria, una spagnola, e stava proprio sotto l’ingresso di casa mia, la vedevo dal balcone. Dopo averci pensato tremila volte, una sera, la invitai a salire da me. Si prese centomila lire anticipate ma solo per un rapporto – le dissi – orale, perché non ero pratico, preferivo un approccio soft, diciamo. Le mostrai la casa e mi sdraiai sul letto, imbarazzato. Mi ricordo una massa di capelli biondi tinti e mi accorsi che peraltro mi aveva infilato un preservativo. Neanche mi funzionò. Lei ogni tanto alzava gli occhi e diceva «nada, nada… », e io non ricordo che cosa le risposi, ma il senso era «vabbè, provvedi, è il tuo lavoro». Ma niente da fare. La cosa più umiliante fu che si congedò in fretta e prima di accomiatarsi mi disse, materna: tu avevi solo bisogno di un po’ di compagnia. Quindi umiliato, emarginato sociale e con centomila lire in meno. 

Sei più misogino o solitario?

Non sono misogino: il mio è un genuino disprezzo per l’essere umano in generale. Per il resto non posso sapere se la propensione alla solitudine – che ho più di qualsiasi altra persona abbia mai conosciuto – sia innata o acquisita, visto che sono cresciuto da solo e ho un bisogno fisico e mentale di stare appunto da solo.

Perché, per anni, ti sei fatto di cocaina?

Messa così sembra che fossi un cocainomane da ricovero. Dal 2003 a circa il 2008 ho avuto quell’approccio anche modaiolo che milioni di persone avevano con una cosa associata a modelli vincenti, insomma non so chi non la prendeva All’inizio, diciamo entro i primi trenta tiri, pare la cosa migliore del mondo, probabilmente perché lo è: non ti astrae dal mondo, te lo fa vivere appieno ma privandoti di quel sottofondo di latente infelicità che è dell’essere umano, questa scimmia antropomorfa per la quale alla natura è un po’ sfuggita la mano. La cocaina è perfetta ma ha un solo difetto: dopo un po’ t’ammazza, e la assumi solo perché senza stai peggio. Iniziai perché mi fu fatale un Capodanno che organizzai con una bella ragazza, che conoscevo appena, e che accolsi a casa mia in uno scenario in cui sembravo Tony Montana in Scarface. Ma non divenne mai un rito socializzante, come è per quasi tutti: la prendevo da solo, a casa mia, magari ascoltando Wagner. Che è anche più pericoloso. Oggi, comunque, le cose sono cambiate perché è cambiata – è evidente – l’utenza, non è più una roba da benestanti, ma anche da ragazzini, immagino sia più una schifezza da microdosi con tantissimi che la prendono per lavorare e tirare sera, dalla maestra al tramviere. 

Riuscivi a scopare in quel periodo? O facevi figuracce?

Sei un po’ un maniaco sessuale. Il sesso è notoriamente l’ultimo pensiero di chi prende cocaina, a meno di assumerla apposta associandola a viagra e simili, perché ti inibisce l’erezione. Nel mio caso è impossibile: ci rimarrei secco, visto che sono iperteso e le due cose insieme alzerebbero – anche – la pressione.

Quand’è che hai smesso? 

Feci due tentativi seri. Uno fallì clamorosamente, a Ponza, semplicemente perché c’era un tizio che la vendeva. La seconda andai in vacanza ai Caraibi con degli amici che non la prendevano, così trascorsi giorni interi senza pensarci. Il ritorno a casa fu durissimo, la dipendenza psicologica è forte e deprimente, dura a lungo, ma ci riuscii senza tante storie, senza dovermi chiudere in qualche rehab.

Sei più esibizionista o vanitoso?

Non sono esibizionista, ma vanitoso sì, che è cosa diversa dal narcisismo. La vanità può spingerti anche a non esserci, non apparire, non dire. La mia vanità coincide con un forte senso della dignità personale, che se ne frega delle opinioni altrui.

 Sei felice della vita fatta finora? Mi sembra di no…

Interessante. Ti ho conosciuto oggi, ma quando vorrò fare un bilancio della mia vita telefonerò a te, così mi spieghi. Io credo, semplicemente, con grande fatica, di essere riuscito nell’impresa di diventare me stesso e non solo un sottoprodotto ambientale. Mi basta.

 A che età hai smesso di fare il minchione?

Non so bene cos’è un minchione, ma se intendi un certo prendere la vita alla leggera – con filosofia, si diceva un tempo – allora puoi scrivere che sono uno dei più grandi minchioni in circolazione. Qualche giorno fa mio figlio mi ha detto che io gli sembravo diverso dai padri dei suoi amici perché gli sembravo più «cazzone» (ha usato quest’espressione) nel senso di meno serioso, meno calato nella parte integerrima del genitore che non stacca mai. Ne sono stato orgogliosissimo. 

Perché?

Perché così, pur rimanendo un padre e non solo un amico, il che sarebbe un grave errore, in questo modo aumenta l’empatia e la capacità di comprendersi: e capire qualcosa di un adolescente è un’impresa assoluta. Mi sono sentito come uno che possiede delle corde in più per provare a educare suo figlio: nel senso di non passar la vita a dargli un’educazione sussiegosa ma sganciata dal mondo reale, passare il tempo a dirgli che cosa sia giusto e cosa sbagliato, che cosa è serio e che cosa non lo è. 

E che cosa è serio?

Nulla è serio, e tutto lo è. Se imparasse questo, sarebbe un successo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

SOSTIENI PERFIDE INTERVISTE

IBAN: IT73E0200805021000106444700
CAUSALE: DONAZIONE A PERFIDE INTERVISTE
INTESTATO A: MELCHIONDA FRANCESCO

This will close in 0 seconds