Quando leggevo le sue interviste, mi capitava, spesso, di invidiarlo, perché Malcom Pagani aveva la possibilità di raggiungere Arbasino, D’Agostino, Paolo Poli, Verdone, Gigi Proietti et similia… L’appuntamento con i suoi “incontri” era, per me, inevitabile. Negli anni, bastava andare in edicola e acquistare Il Fatto Quotidiano, l’Espresso, il Messaggero o Vanity Fair – i giornali che gli hanno dato di che campare – per delibare le sue lunghe chiacchierate. Con passo felpato, senza entrare a gamba tesa, almeno così ricordo, riusciva a cogliere dettagli e raccogliere aneddoti sugosi e, a volte, mai raccontati prima… Una sera, mentre ero a cena con sua madre, Barbara Alberti, Pagani mi ritorna, d’un tratto, alla mente. In attesa che ci servano il dolce, chiedo a Barbara il suo numero. La curiosità di conoscerlo e la voglia di raccontare le sue traiettorie, spesso poco lineari (ma chi lo è, poi, lineare?), erano troppo forti. E così è stato. L’indomani lo chiamo, e la sua disponibilità è totale. Devo solo aspettare il suo rientro dal Salento, storico ritiro estivo della famiglia. Ci vediamo una sera, dalle parti dei Parioli. Chi si aspettava Malcom Pagani dirottato al Pigneto, all’Esquilino o al Testaccio, o ancora alla Garbatella – quartieri romani bohémiens – resterà deluso. Pagani, pur dichiarandosi de sinistra, come si dice a Roma, è un uomo profondamente borghese, e fieramente di Roma Nord. Lo raggiungo quando, finalmente!, nella Capitale il frastuono comincia ad assopirsi. Da casa sua, con il vento a fischiarci alle orecchie, e a spezzare il regnante e tonificante e monastico silenzio, è possibile scorgere una parte di Roma in tutta la sua bellezza e freddezza e distanza. Dopo brevi e sinceri convenevoli, ci sediamo e cominciamo subito questo rendez-vous che durerà circa tre ore, sì, avete letto bene, tre ore! Tante e tali erano le mie curiosità, che non potevo lasciarlo andar via facilmente. A quasi cinquant’anni, dopo aver girovagato per un torno di tempo molto lungo nelle tempestose e infernali redazioni, Malcom Pagani sembra aver trovato la rotta. Domanda, però: ma quale mare navigherà, adesso…? Leggendo la sua prima e vera, confessione, qualcosa, chissà, si capirà…
* * *

Malcom Pagani, ha un ricordo che la ossessiona di quando era bambino?
Le mie grandi ossessioni bambinesche sono state il cibo, il calcio e la televisione. Mia madre era Canale 5, mio padre Italia uno, e mia sorella, che mi faceva vedere i film proibiti di Dario Argento a notte fonda, Rete 4. Sono cresciuto con le tv di Berlusconi, con i suoi quiz, i suoi telefilm. Sono cresciuto con la Gazzetta dello Sport e con le figurine Panini. Mi ritrovavo spesso da solo con lo schermo acceso, le briciole dei biscotti sul letto e una solitudine che era al tempo stesso disordine, emancipazione precoce e libertà.
Ma perché era schiavo del cibo? Aveva qualche disturbo?
Non credo: mi piaceva semplicemente mangiare. Ero capace di ingurgitare, nel cuore della notte, una cuccuma di pasta fredda, una vaschetta di gelato, o un’intera scatola di merendine. A 14 anni pesavo 125 kg. Agli occhi delle ragazze ero quello simpatico, ma inadatto all’amore.
Ha detto che ha avuto lunghi momenti di solitudine. Come mai? Era invisibile agli occhi dei suoi genitori?
I miei avevano da fare, ma era un’epoca in cui a noi bambini veniva lasciato un enorme spazio da riempire con la fantasia. Sono stato felice di crescere con loro. Se non sei seguito, sei libero. Immagini, sogni, ti perdi nelle tue prime fantasie. La noia è stata la grande alleata di quegli anni. Faceva correre i pensieri e ti faceva scoprire chi eri.
A che età ha scoperto il primo piacere femminile?
Ho fatto l’amore per la prima volta negli anni del liceo, con una ragazza svedese.
Lei impacciato?
Più che impacciato, emozionato. Avevo passato molto tempo a corteggiare ragazze sugli scalini delle chiese, con verbosissimi e noiosissimi discorsi, senza mai sfiorarle. Era tutto cerebrale. Leggevo poesie magnifiche e ne scrivevo di terribili. L’amore era teoria e wertherianamente mi sembrava che senza sofferenza non esistesse sentimento. Le ragazze mi piacevano molto, ma più di tutto mi piaceva non andare a scuola, sottrarmi alle lezioni, oziare. Ho passato gli anni del Liceo a travestirmi da leaderino studentesco, a inventare scuse per occupare la scuola, a perdere tempo organizzando patetiche rivolte, a infiammare le assemblee.

Giancarlo Dotto ha scritto, più volte, che a Roma, negli anni d’oro del Pupone, c’erano più tottiani che romanisti… Aveva ragione, secondo lei?
Giancarlo è uno dei più bravi giornalisti italiani, ha tutto: cultura, scrittura, genio. Ma, nei confronti di Totti, soprattutto nella fase discendente, c’è stato accanimento: è una specialità italiana. Deifichiamo e abbattiamo le icone alla stessa velocità, ma quando le icone imbiancano siamo spietati. Molti miei amici romanisti pensano che Totti abbia fatto il male della squadra, che sia stato un padre-padrone, che abbia pensato solo a sé stesso, che non abbia saputo dire basta. Ma è falso, cercava solo un addio più dolce. È stato trattato alla stregua di un abusivo e non lo meritava. Totti regalava bellezza e felicità. Ho sperato vivamente che continuasse a giocare. Mi è sempre piaciuto, Totti. Mi sarebbe piaciuto ovunque fosse andato.
Che sentimenti le ha suscitato Spalletti in quegli anni? Odio, fastidio, apprezzamento? Alla fine, fare scelte impopolari non solo è necessario, ma è anche sacrosanto.
Ma sacrosanto per chi? Per cosa? Per affermare il proprio piccolo potere? Per dare l’esempio? Per mostrarsi più forti e severi? Per disprezzare il sentimento popolare? Non è triste la severità quando somiglia a un manifesto programmatico? Spalletti non l’ho capito né ammirato. Avrebbe potuto accompagnare Totti alla porta con dolcezza, come la Juventus seppe fare con Altafini, e invece ha scelto lo scontro mancandogli di rispetto. È stato grottesco. Per chi osservava, per Totti, ma anche per Spalletti.
Come ha vissuto la separazione dei tuoi genitori? Ne ha sofferto? Se n’è beato perché non li sopportava più?
Prima di risponderle nei dettagli, le dico che a casa nostra, con grande volgarità, si irridevano gli analisti o chi andava dallo psicologo. Quindi se ho sofferto non l’ho detto a nessuno né nessuno mi ha spiegato perché. Di queste cose non parlavamo. Accadevano. Accadevano e basta. Per certi versi, sono stato molto contento che si lasciassero. Dopo anni molto lieti erano arrivate le urla, i rinfacci, la cupezza. Dopo la separazione mia madre passò un periodo di furia creativa e sofferenza. I miei genitori hanno avuto una grande storia d’amore che, come spesso avviene, finisce. Gli anni felici li vide mia sorella, di dieci anni più grande di me. Mio padre – così mi raccontò durante un viaggio in macchina verso Venezia – lasciò mia madre perché si innamorò di una ragazza molto bella e più giovane di mia madre. Con quella ragazza elegante andò ad abitare e sparì dalle nostre vite. Pensavo fosse andata così, ma qualche anno fa, in uno dei rari viaggi fatti con mia madre, le chiesi come fossero andate realmente le cose. E lei mi raccontò tutta un’altra storia.
Racconti.
Mi disse che mio padre guardò, folgorato, un’altra ragazza a bordo piscina, mentre erano in vacanza in India. Mia madre, con fervida immaginazione, in quello sguardo, proiettò il futuro della loro storia. SI vide perduta e rapida e decisa, tagliò la corda da un momento all’altro. È come in Rashomon: ognuno ha il proprio punto di vista su un delitto. Ma i bambini di quel delitto vedono solo le conseguenze e le ragioni in fondo sono poco interessanti. I bambini comunque cercano solo la felicità altrui: tra mio padre e la donna che scalzò mia madre la storia sembrava perfetta e così mi ritrovai a guardarla con benevolenza.

Addirittura? E perché?
Per conformismo forse? Non sono mai andato in analisi e non vorrei iniziare oggi.
Che rapporto hanno avuto i suoi genitori con il denaro?
Totalmente dissoluto. Ricordo che mio nonno, quando ci veniva a trovare, faceva questa gag: prendeva mille lire e ci diceva: voi fate questo tutti i giorni…
Cioè?
Spezzettava la banconota davanti la finestra e la faceva volare nell’aria come fossero coriandoli. Ancor oggi hanno un rapporto con il denaro confuso e disordinato. Ci sono stati periodi in cui facevamo la spesa a credito perché non avevamo i soldi per comprare il cibo. C’era un droghiere meraviglioso, in Via Anapo, si chiamava Virgilio Virgili. Per più di un anno ci sfamò senza pretendere nulla. Un giorno scrissi un’ordinazione imitando la scrittura di mia madre: dentro alla lista della spesa c’erano solo dolci e merendine. Lui, preoccupato, senza alcuno spirito delatorio, la avvertì e io mi vergognai a tal punto da non passare più davanti al negozio per mesi e mesi. Poi, alla Vigilia di Natale arrivò una sua lettera. Era scritta benissimo ed era indirizzata a me: “Ci manchi” c’era scritto “torna presto”. Sotto la firma c’era una ditata d’olio. Una cosa commovente, romantica, di un altro tempo.
Sua madre Barbara è sempre stata una donna libera e aperta… Come ha reagito quando si innamorò addirittura di una donna?
Questa storia l’ho sempre sentita raccontare. Conoscendo mia madre, mi è sempre sembrata una cosa possibile. I bambini, che sono ferocissimi, soprattutto quando sono a scuola, dicevano: “oh, questo (cioè, io) c’ha la mamma lesbica”. Era vero? Era falso? Non me ne è mai fregato niente. Siccome a casa c’era sempre molto pudore e riservatezza, non le saprei rispondere con certezza, anche perché non ne abbiamo mai discusso né prima né dopo. Ricordo perfettamente, invece, lo choc che ho avuto quando la beccai a letto con un altro uomo, che sapevo essere il suo fidanzato. Avevo otto anni. Trovarmelo davanti agli occhi fu un piccolo trauma. È una fotografia molto nitida ancor oggi.
E lei, ha mai avuto pulsioni omosessuali?
Mai. Ma ho amato degli amici e l’idea dell’amicizia soffrendo come si soffre per amore: quando ti tradisce un amico soffri allo stesso modo.
Quando ho avuto modo di intervistarla, sua madre mi ha detto. “L’amore è gelosia. Appena ti innamori, diventi geloso”. Quante volte è stato geloso?
La gelosia è un sentimento orrendo: ti fa vedere una realtà parallela che spesso non esiste. È un masochismo utile a farsi male, a rovinare i rapporti, ad inquinare il quadro. Al tempo stesso è un sentimento molto naturale e mi chiedo se le volte in cui non l’ho provato fossi veramente innamorato. Qualche volta ovviamente sono stato geloso anche io.

Si sentiva fragile, insicuro?
In amore, ammesso e non concesso che ci abbia capito qualcosa, la nostra forza dipende soprattutto da come ci guarda l’altro.
È un uomo possessivo, lei?
Ma che significa possessivo? Se ami davvero, un miracolo raro, cerchi di difendere quel miracolo.
Alessandra Fiori, Mia Ceran, Caterina Franceschini, e Ilaria Visconti di Modrone sono state, o sono tuttora, donne che hanno fatto parte della sua vita amorosa: domanda: a quando una donna non famosa o non altolocata?
Mi sembra una domanda demenziale. Non ho mai chiesto i documenti a nessuno. Mi innamoro di un volto, non di un cognome. Non sono Bel Ami, non lo sono mai stato: anche per quello ci vuole talento. Dell’amore comunque non si parla. Si ricorda William Blake? “Non cercare mai di dire il tuo amore, l’amore che mai può essere detto”.
Sua madre mi ha raccontato che quando conobbe Vittorio Sgarbi, per tre anni passava solo a cambiare gli abiti… Eravate disperati a casa?
Ma si figuri se eravamo disperati. Ma chi si è mai visto a casa mia? Non eravamo certo una di quelle famiglie che si riunivano a pranzo o a cena. Mia madre è sempre stata una donna libera: non l’abbiamo mai giudicata per le sue passioni improvvise, per i suoi viaggi, per le sue infatuazioni letterarie. Ricordo che Vittorio passava a prenderla di sera, e la portava a vedere una cattedrale, a Mantova, alle 4 del mattino. Il loro rapporto era così… Sgarbi a casa l’ho visto solo una volta. Tanti anni dopo mi capita di fargli un’intervista telefonica. Non avevo con me il registratore e prendo appunti a penna. Sai cosa fa lui? La smentisce totalmente! Purtroppo, non avendo registrato, non posso giurare che non avesse ragione.
Cos’è che non apprezza o non sopporta di sua madre?
A volte trovo l’enfasi insopportabile. Non vede le sfumature. Per lei, è tutto bianco o tutto nero.
Perché la faceva soffrire il fatto che andasse al Maurizio Costanzo Show?
Perché fino ad una certa fase della mia vita, è stato molto rilevante quello che dicevano gli altri. E gli altri dicevano sempre che mia madre, quando andava in tivù, era una matta che urlava, e che faceva casino.

Ha detto prima che sua madre non è mai stata una donna elegante… Ci spieghi meglio…
L’ho detto? Si dicono tante cazzate. Non lo penso davvero. A suo modo è elegantissima, ma certo non indossava il tailleur che il piccolo borghese che è in me vedeva portare dalle madri dei suoi amici da bambino e molto invidiava. Mia madre andava in giro con gli abiti bucati e con l’olio al bergamotto sul viso per abbronzarsi e casa mia era sempre un casino totale, a differenza delle case ordinate che non abbiamo mai avuto. Non si trovava mai un calzino, una mutanda, una maglietta. Andavo a scuola con i pantaloni della tuta bucati e per coprire i buchi usavo le figurine dei calciatori.
Cosa ha pensato quando scelse di partecipare al Grande Fratello? Io, ad esempio, dissi: abbiamo perso anche Barbara…
Non ho pensato niente, ma non ne ho visto un solo minuto. So che avrei sofferto e me lo sono risparmiato. Lei si è divertita, questo lo so.
Ultimamente, chiedendo a Stenio Solinas che talento avrebbe rubato a Roberto Calasso, mi ha risposto: il milieu, la biblioteca e le amicizie di famiglia. Lei si ritiene fortunato nell’essere figlio di Amedeo Pagani e Barbara Alberti?
Mi è andata bene. Ho avuto due genitori simpatici, gente che ride e insegue la felicità. Avrei voluto che mi organizzassero l’esistenza: non è successo ed è stato meglio così.
In che senso voleva che le organizzassero l’esistenza?
Non avevo alcuna moralità e mi sarei fatto raccomandare volentieri dai miei genitori. Non volevo altro che alzassero il telefono per aiutarmi dato che avevo pochissima fiducia in me stesso. Più volte, non essendo neanche laureato, mi sono chiesto: “che cazzo voglio fare da grande e come raggiungo una tranquillità economica?”.
L’hanno aiutata?
Macché. Non avrebbero saputo neanche da dove iniziare. Penso di aver avuto molto culo perché sono stato uno degli ultimi ad entrare in un giornale, ma grazie a delle casualità pazzesche… A Valentina De Salvo e a Nuccio Ciconte devo molto perché, grazie alla loro generosità, ho fatto i miei primi passi all’Unità quando ero all’Università di Bologna e al Fatto quotidiano. Da lì in poi, è stata una bellissima discesa.
E oggi, ce l’ha una parvenza di moralità?
Intermittente, a ondate.
Per anni ha vagato tra un giornale e l’altro, come se la sua vita, in realtà, fosse sempre altro e altrove… Da dove nasce tutta questa sua volubilità? Se l’è mai chiesto?
Che io sia volubile, è sicuramente vero. Me ne sono sempre andato dai posti di lavoro perché a un certo punto ho sempre amato cambiare. Al Fatto ho avuto un’esperienza molto formativa e bella; Travaglio e Padellaro mi concedevano delle libertà pazzesche. Una volta intervistai Pennacchi, un grande anzi un grandissimo scrittore che amava il turpiloquio. Mi disse cose tremende di Travaglio: la cosa più tenera era bugiardo. Andai da Marco per dirgli che Pennacchi, nell’intervista, l’aveva preso di mira. Lui non batté ciglio: pubblicammo tutto integralmente.

Quanto guadagnava?
Guadagnavo esattamente millecento euro al mese, passando 10-11 ore in redazione. Quando mi capitava di andare a cena con Padellaro, un uomo simpaticissimo, gli dicevo: Antonio, io non voglio morire al giornale, non ce la faccio a stare così tanto tempo chiuso in redazione. Di lì a breve, passai all’Espresso accolto alla grande da Bruno Manfellotto; lavoravo molto meno, lunghi tempi morti, e grandi amicizie – Fittipaldi, Turano, Abbate ed altri – con uno stipendio più ricco.
Pensa di essere stato un traditore?
Assolutamente sì, perché la mia vera ambizione non è stata mai quella di scalare i giornali né quella economica, seppur importante, ma di vita. Volevo avere la possibilità di vivere e godermi mia figlia.
Cosa non le piaceva di Travaglio, quando era il suo direttore?
In termini assoluti, non me ne fregava niente della linea politica che assumeva il giornale. Spesso non ero d’accordo, ma non ha mai rappresentato un problema. Al Fatto sono stato molto libero. Marco poteva disprezzare i suoi nemici perché si occupava di cose serie e di suo non ama le mediazioni. Io scrivevo di spettacoli, un’altra cosa.
Quanti ruffiani c’erano al giornale?
Perché ci sia un ruffiano, ci deve sempre essere uno a cui piace essere blandito. E se c’era un modo per disgustare Travaglio, era ungerlo. Certo, esistevano i suoi preferiti: Silvia Truzzi, Beatrice Borromeo, Marco Lillo, Antonio Massari. Allo stesso tempo c’erano molti che non l’amavano, e lui se ne fregava: Marco non ha mai cercato il consenso. Mai visto nessuno più indifferente al giudizio altrui.
Come reagì quando ha lasciato il Fatto?
La prima volta non disse nulla, capì e basta. La seconda volta lasciai, probabilmente, anche perché non mi bastavano i soldi che guadagnavo. Impostai una trattativa con Il Messaggero, all’epoca diretto da Cusenza, e riuscii ad ottenere ciò che volevo. A Marco dispiacque, ma siamo rimasti amici.

Qual è stato il direttore che le ha creato più rogne?
Ho discusso con tutti, ma non ricordo litigi.
In pompa magna l’annunciano al Messaggero, ma, dopo soli quattro mesi, lascia la storica sede di via del Tritone. Cos’era successo? L’hanno cacciato?
No, cacciato no. Era un giornale ben strutturato e pieno di umanità, attraversato da qualche tensione perché, ricordiamolo, il proprietario era, ed è tuttora, Caltagirone, e questo ha un suo peso. Per fortuna, facevo delle pagine abbastanza innocue, anche se, a volte, scrivendo di ministeri e di Rai, un paio di richiami, non certo dall’editore, li ho ricevuti anche io. Me ne sono andato perché mi chiamò Daniela Hamaui, per propormi la vicedirezione di Vanity Fair. Un settimanale. Una botta di culo pazzesca perché dopo anni di articolo 2, nella libertà di scrivere fuori dalla redazione, il Messaggero era come la leva. Un grande giornale, con una grande tradizione, in competizione con gli altri grandi giornali. La riunione, il buco da non prendere, le ribattute, le pagine da titolare, la cronaca di Roma, gli orari massacranti. Entravo alle 9, uscivo alle 23 e non di rado, appena aperta la porta di casa, mi toccava rientrare al giornale e ribattere le pagine perché, magari, era morto un attore, uno stilista, un cantante.
E con Cusenza com’è andata? Non le stava simpatico?
Quando ho dato le dimissioni, si arrabbiò molto, perché mi aveva voluto e considerò l’addio una mancanza di rispetto. Non siamo stati amici, ma non posso di certo lamentarmi della sua direzione. Azzurra Caltagirone mi propose addirittura di collaborare e continuare a fare le interviste domenicali. Ma con Vanity andavo a fare il vicedirettore, avevo l’esclusiva, e dovetti dire di no.
Vanity Fair le fa un contratto da vicedirettore, ma la costringe a vivere a Milano. Cosa succede lì? Troppo romano, troppo terrone, troppo provinciale, per stare in una città del nord? Alla fine, scappa anche da lì…
A me Milano non è mai piaciuta. I primi sei mesi furono terribili, ero veramente turbato; poi, lentamente, mi sono abituato, l’ho accettata, apprezzata e rispettata pur non amandola per niente.
Chi sono i giornalisti che l’annoiano quando scrivono?
Tutti quelli che parlano di loro stessi.
A proposito di Roberto D’Agostino, ha scritto: “… Negli ultimi dodici mesi per un’incomprensione silenziosa, senza neanche il sollievo di un salvifico e liberatorio vaffanculo, non ci siamo più visti. Ci penso spesso. Spessissimo. Accidenti quanto mi secca ammettere che avevo torto io. Ma ce l’avevo e glielo dico adesso. Prima che passi un altro anno”. Cosa ha combinato, Malcom?
Roberto è stato, per me, un vero punto di riferimento, e senza che io gli chiedessi nulla. Con una incredibile costanza, aveva ripreso tutte le interviste che avevo scritto per il Fatto, l’Espresso e il Messaggero, e, questo, ovviamente, mi aiutò moltissimo. Considero Dagospia il più bel giornale d’Italia. Tutta la sua redazione, a partire da Riccardo Panzetta, dalla mattina alla sera, fa un lavoro pazzesco.
Anche se non tutti lo sanno, Roberto è una persona sentimentale e affettuosa. Ma non voglio evitare la sua domanda. Succede questo: lo invito alla prima del primo film che produco (un documentario sulla Vanoni, diretto da Elisa Fuksas) e, per la penna di Marco Giusti, il film viene stroncato. Prendo il cellulare e mando un messaggio violentissimo a Marco. Con il senno del poi, mi sento di chiedere scusa anche a lui. Dovevo semplicemente accettare le critiche e passare oltre.

Da giornalista a censore, il suo passo è stato brevissimo, Malcom…
Sono stato stupido. Succede. Litigare non è un dramma.
Anche lei, per anni, ha fatto lunghe interviste… Chi è che, per motivi i più diversi, l’ha deluso o amareggiato?
Mi ha detto recentemente Sabelli Fioretti: tutte le volte che qualcuno ti delude, è perché magari non ti sei preparato abbastanza. Con Sergio Rubini litigai dopo un’intervista perché io volevo pubblicare tutte le parolacce che aveva detto, mentre lui mi intimava di cassarle tutte. Un’altra volta con Gianna Nannini: lei negava di aver detto la parola frocio in una intervista mentre io continuavo a dirle: guarda, se non ci credi, ti mando la registrazione di quello che hai detto… Più che delusioni, direi dialettica.
Negli anni delle sue scorribande giornalistiche, ha avuto modo di conoscere, frequentare, attori, registi, produttori… Chi sono quelli che, frequentandoli, le hanno fatto dire: tutto qua?
Con Matteo Garrone litigai a Cannes. Ma di Garrone non si può dire tutto qui. È un regista straordinario.
Perché litigaste?
Mi accusò, in pratica, di scrivere per un giornale di merda, che, all’epoca, era il Fatto Quotidiano. Fu inutilmente aggressivo.
Quante marchette, per ingraziarseli ed entrare nel loro giro, ha dovuto fare da giornalista?
È successo sicuramente, tantissime volte, magari in maniera inconsapevole. Mi sono fatto guidare molto dalla simpatia.
Si è mai vergognato della sua scrittura?
Assolutamente sì! Quand’ero al Fatto, per evitare di cadere in certe trappole, smisi, ad un certo punto, di fare lunghi cappelli introduttivi, e di essere essenziale nell’aggettivazione e nei ghirigori. Ho fatto mia la lezione di Dino Risi che, parlando di Moretti, gli disse: spostati, fammi vedere il film.
Lascia, per dirla con Balzac, i bordelli del pensiero, vale a dire i giornali, e si tuffa in uno dei mondi più finti, quello del cinema… Chi gliel’ha fatto fare? Voleva guadagnare di più?
È sicuro che sia finto? E che sia più finto di altri? Il punto chiave era lasciare Milano e tornare a Roma. Conosco Moreno Zani, un importante e bravo imprenditore che lavora con la finanza. Un giorno mi dice: sto cercando un direttore editoriale per la mia casa di produzione. Mi dai una mano? Io, con faccia di bronzo, ribatto: Moreno, quella persona sono io! Raggiungo l’accordo, rifaccio i bagagli e torno finalmente a Roma. Sono molto felice perché faccio un lavoro che mi piace, e che mi permette, tra l’altro, di essere anche molto libero.
Ha intervistato, anni fa, il sommo Arbasino. A proposito degli intellettuali suscettibili, le disse: “Chi osa mettersi contro da oggi in poi non è credibile”, “Chi non capisce è sciocco”, “Chi non si spella le mani è un buzzurro”. Ora che è dall’altra parte della barricata, in veste di produttore, quanto è suscettibile e permaloso? Mi dica la verità!
Come insegna la storia con Marco Giusti, sono molto permaloso. Gestisco soldi che non sono miei, e, quindi, non voglio sbagliare film, progetti, ma fare solo delle cose in cui credo e che permettano a chi ha creduto in me di continuare a crederci. Essere suscettibili ha a che fare con il rispetto nei confronti di chi investe.
Nel dualismo Garrone-Sorrentino, a chi si sente più vicino? E perché?
A Paolo, senz’altro. Perché mi piace di più il suo cinema e perché è un mio amico. Riconosco la bravura pazzesca del Garrone regista.

Quale film, dei due registi, butterebbe nel dimenticatoio?
Mai piaciuto il gioco della torre. Se devo citarne proprio uno dico “l’Amico di famiglia” e “Gomorra”.
Quali sono le attrici italiane miracolate dai produttori?
Penso che se dai ad un attore o un’attrice tanti copioni, se fai recitare sempre le stesse facce, se non hai fantasia nella scelta degli interpreti, è inevitabile che il risultato non arrivi sempre.
Capisco cosa vuol dire, ma la sua risposta è da paraculo, tipica di chi non vuole esporsi…
È la sua domanda ad essere inutilmente offensiva. Cosa significa essere miracolati? Non sarebbe meglio guardare a noi stessi invece di pensare sempre a quelli che ce l’hanno fatta con velato rancore? L’invidia è la religione nazionale. Esistono le occasioni. Se poi non le meriti nasconderlo è difficile.

In un articolo che ha scritto per Repubblica, si è lasciato andare ad uno sperticato elogio di Nanni Moretti. Da sempre, i suoi film sono ombelicali. Quando penso a Nanni, mi sovviene sempre Arbasino che, nei suoi Ritratti italiani, così scrive del regista: “Magari, non trascurare quel primo accorgimento basico: mai frequentare le persone che ripetono troppi io, io, io, come ho detto io, come io ho predetto, io ridico, io sostengo. Sono i veri nemici della conversazione, oltre che della buona educazione… E il Noi, allora?”. Non è d’accordo anche lei?
La correggo: era tutto fuorché uno sperticato elogio di Nanni; nell’articolo dicevo: noi adolescenti molto conformisti, e fieramente sinistrorsi, amavamo Nanni Moretti. Fino a “Caro Diario”, Nanni ha mostrato a tutti noi la sua bravura, non ha sbagliato un colpo. Il “Sol dell’Avvenire”, film che ho visto due volte, e che non mi è piaciuto, era però il film che sembrava rivelasse finalmente la debolezza e le fragilità di Moretti; Nanni diceva, in pratica: forse ho sbagliato tutto, forse sono stato un grandissimo rompicoglioni, forse non è più il mio tempo, forse sono antipatico. Detto questo, Arbasino aveva perfettamente ragione…
Quali sono stati i film più brutti che suo padre Amedeo ha prodotto? Sia cattivo…
“Aspetta fino a primavera, Bandini”, tratto da un libro bellissimo di John Fante, e, poi, “Il frullo del passero”, con Ornella Muti protagonista.

Nella sua esistenza, ha mai avvertito un senso d’inadeguatezza o smarrimento?
Moltissime volte. Come si fa a non sentirsi inadeguati rispetto alle cose che ci vengono chieste quotidianamente? Sentirsi un po’ smarriti, dubbiosi, penso serva. Diffido delle persone che si sentono troppo sicure di sé… Bisogna fare pace con sé stessi se non si è Céline…
Racconti un gesto indegno della tua vita e di cui poi, almeno spero, si è pentito…
Riguarda proprio Nanni Moretti. Appena arrivato all’Espresso, mi passano la sceneggiatura di “Habemus Papam”. Per ambizione, do il film al giornale, che ne fa la copertina con Moretti travestito da Papa. Moretti s’incazzò come una belva. Ricordo che mi chiamò il suo produttore, Procacci, facendomi un culo così, tipo “per me, da oggi, non esisti più…”; lo stesso Moretti, con il quale non ho parlato per più di dieci anni, credo che la cosa non se la sia per niente dimenticata. A ripensarci, feci una cosa ignobile, una vera porcata.
Si reputa un uomo brutto?
No, per niente! Ma l’ho pensato fino ai miei diciotto anni…
Che rapporto ha avuto finora con la noia?
Mi è stata di grande aiuto negli anni in cui non avevamo altro che la tivù, magari sdraiato a non fare un cazzo. La noia è bellissima se non è velata dalla depressione…
È stato depresso?
Forse sì, chi lo sa, ma, come le ho detto prima, a casa irridevamo chi andava in analisi…. Sicuramente, malinconico, a volte triste…
Quante volte l’è capitato di essere un uomo noioso…?
Tutte le volte che me l’hanno fatto capire con uno sbadiglio.
Qual è la sua parte più oscura e che le fa più paura…?
Quella che non voglio conoscere troppo da vicino.
Sei quasi alla soglia dei cinquant’anni; la gioventù è, ormai, un lontano ricordo… Ti è mai capitato, pensando a quand’eri ragazzo, di fare tua la celebre citazione di Paul Nizan: “Non permetterò a nessuno di dire che è la più bella età della vita…”?
Paul Nizan aveva perfettamente ragione: negli anni della gioventù la pensavo proprio come lui. Dopo ancora di più.
