Giovanni Minoli

Di Minoli sappiamo tanto, forse tutto. Presentare la sua cinquantennale carriera televisiva – passata dall’analogico al digitale – così come i suoi successi, i suoi capitomboli, le sue idee, è opera vana. Inutile.  Quando, mesi fa, poco prima dell’estate, l’ho cercato, quello che mi premeva, in realtà, era altro. Sapere e scoprire qualcosa in più di Giovanni, dei suoi pensieri, delle sue origini, dei suoi dolori, dei suoi amori, e dei suoi errori. E così, in un sabato ancora caldo, afoso, e nonostante i ricordi delle vacanze siano ormai sempre più sbiaditi dal tempo che scorre e cancella e obnubila, raggiungo Giovanni Minoli nel suo eremo, dalle parti di Piazza Navona. Superati i convenevoli della presentazione, ci sediamo nel suo salotto-studio, con un grosso televisore – poteva mancare? – a farla da padrone. Smessi i panni del conduttore, del manager, dell’ideatore di programmi, e abbandonati tutti gli orpelli borghesi atti a ricevere gli ospiti, soprattutto quando non si conoscono, Minoli ha lo sguardo sereno, pacato, sorridente; i suoi occhi azzurri – vispi, seducenti, vivaci – hanno il guizzo dell’uomo che vuole ancora fare, incidere, creare, partecipare, essere nella mischia, contare.

Nelle quasi tre ore di chiacchierata, questo torinese anomalo non si è risparmiato di certo. Ha scavato nei suoi ricordi, senza remore o vergogna. Sarà l’esperienza, la saggezza, l’istinto, ma, ai miei occhi, quest’uomo dai mille risvolti e dalle tante ascese e discese – tipiche di chi ha vissuto una vita intensa – mi è sembrato un uomo libero, senza particolari freni, sgombro dalle sovrastrutture di chi deve ancora inventarsi una carriera, o, ancora, un’esistenza.

Come un gatto sornione, nel tempo trascorso insieme, mi ha osservato e scrutato attentamente, cercando di capire realmente chi fosse il suo interlocutore e cosa volesse. E così le domande – tante – così come le sue risposte, brevi, taglienti, concise – proprio come le  interviste che tanto lo resero celebre con Mixer – hanno preso il colore, la piega, il disegno di un ritratto vero, crudo, privo di barocchismi. D’altronde, giunto a 76 anni, per Minoli, che senso avrebbe mentire, annacquare, omettere, eludere, una storia, la sua storia, dinanzi alla verità dei fatti, dei suoi fatti?

      F.M /francescomelchionda@tiscali.it

Fotografie di Ludovica Borghesi

Giovanni Minoli, da 40 anni a Roma, ma torinese di nascita. Che bambino era? Se lo ricorda?

Certo che me lo ricordo. Ero un bambino rivoluzionario, una peste. Ero contro tutte le regole, che non mi piacevano affatto. Credo di essere stato in castigo tra i cinque e i diciassette anni. Non andava mai bene niente di quello che facevo.

Che cosa faceva di così terribile o rivoluzionario, tanto da meritarsi continue e severe punizioni?

Semplicemente ero sempre controcorrente

Chi erano i suoi genitori?

Mio padre è stato un grande intellettuale cattolico, un giurista, nonché fondatore dell’arbitrato internazionale; mia madre, invece, era una anarchica costituzionale, una “matta” vera, ma molto intelligente e severa.

Viveva bene a Torino? Si sentiva appagato?

Sì, vivevo bene, anche perché facevo quello che volevo: scrivevo e giocavo a pallone, ma seriamente. Ancor oggi, quando vado a Torino, sento che quella è la mia terra. Voglio morire ed essere sepolto lì. E, tuttora, mi piace la mia città, perché è l’unico posto dove riesco a misurare il passaggio del tempo, del mio tempo. Anche se tutto lì sembra immobile e immutato, solo a Torino ho la reale percezione del tempo.

Una volta ha detto che suo padre, insieme al cardinal Martini, è stato un suo pilastro spirituale. Ce lo spieghi.

I pilastri spirituali sono quelli che ti danno le dritte sulla vita. Ancor oggi, a distanza di cinquant’anni dalla sua morte, ho un rapporto quotidiano con lui; ci parlo, mi confronto. Ormai non so più cosa pensava lui, cosa penso io o cosa gli faccio pensare…

E perché anche il cardinal Martini è stato una figura centrale nella sua formazione?

Io ho studiato dai gesuiti, e Martini era il mio professore all’Istituto sociale di Torino. Negli anni a seguire ho avuto, con lui, un rapporto intenso, di grande scambio intellettuale. Martini era un uomo freddo, ma intellettualmente un uomo molto stimolante. Aveva il calore della super intelligenza, ma, di certo, non era un uomo di grandi slanci affettivi.

Cosa ha imparato dai tanto vituperati gesuiti?

Vituperati lo dice lei! I gesuiti selezionano, di base, la classe dirigente. Sono, secondo me, l’ufficio studi dell’umanità nelle arti, nella politica, nella cultura, e non necessariamente cristiana.

Sì, ma lei, lasciando da parte il generale, cosa ha imparato da loro?

Il primato della cultura.

E sua madre – nazista, così la descrive – che ruolo ha avuto nella sua vita? Marginale?

Un ruolo fondamentale. Mia madre era moglie, ma non mamma. Innamorata pazza di suo marito, dovevamo stare attenti a che mio padre non prendesse neanche un raffreddore, altrimenti erano guai! Ci avrebbe cavato gli occhi se fosse successo. Mio padre era sempre in giro per il mondo, e, quindi, a lei toccava tenere in piedi la baracca. Considerando che eravamo otto figli, capisco anche la severità dei suoi comportamenti.

Sì, ma cosa le ha trasmesso per essere fondamentale?

Mi ha trasmesso la capacità di affrontare la durezza della vita, con molto rigore e senza indulgenza e l’importanza dell’amore.

E lei, Minoli, pensa di essere una persona forte?

Pur con tutte le fragilità, psicologicamente, sì, penso di essere un uomo forte.

Fotografie di Ludovica Borghesi

“Sopravvivere in una famiglia numerosa – sono le sue parole – ti insegna quanto sia difficile la vita”. Non le sembra di aver esagerato in questa sua dichiarazione?

No, anzi. Non ho trovato niente di più difficile che sopravvivere a casa mia!

Era un inferno, casa sua, per come la racconta…

No, non era un inferno. Ma una palestra di vita. Quello che ti insegna la famiglia numerosa è che la vita è dura ma che, al contempo, con l’amore e la solidarietà, che da noi non mancavano, tutto si può sopportare.

Si sente più sabaudo o italiano?

Italiano non so cosa voglia dire, in realtà. Io mi considero un torinese del sud. Tutte le cose belle che ho fatto, le ho create nel sud Italia. I piemontesi sono noiosi. Sabaudo nello stile, certamente sì, ma senza arrivare a confondere l’etica con l’etichetta.

Da dove nasce la sua passione per Cavour?

Perché in Cavour, molto più che in Garibaldi o Mazzini, vedo il grande politico, intelligente, scaltro e pragmatico. Poi non so quanto avesse realmente in mente l’idea di unità nazionale.

Qual è stata la molla decisiva che, poi, le ha permesso di lasciare la città della Mole?

Nessuna molla particolare, più semplicemente lo studio. Mio padre, intelligentemente, volle che tutti noi uscissimo dal nido torinese e che andassimo a studiare altrove, chi a Roma, come me, chi a Milano o Bologna. Dovevamo andar via da quella caserma, che era casa nostra, per non restare schiavi delle dinamiche che si sarebbero messe in moto. Mai scelta fu più azzeccata.

Che rapporto, ancor oggi, ha con i suoi fratelli?

Dipende dai periodi.

Che Rai trovò al suo esordio?

Una Rai bellissima; un luogo dove circolava veramente intelligenza, qualità, amore del prodotto. E penso che la lottizzazione sia stata il bene migliore.

Addirittura?! Non sta esagerando?

Assolutamente no! Democristiani, socialisti e comunisti facevano il 90% del Paese. Più democratica della lottizzazione non c’è mai stato più niente! Perché i partiti, essendo in concorrenza, alla fine promuovevano i migliori, e ogni rete provava ad essere migliore dell’altra. E le mezze calzette, che pur c’erano e servivano, erano innocue.

Come nacque l’idea di Mixer, programma che, poi, la fece conoscere al grande pubblico?

Come nacque esattamente, non lo ricordo benissimo. Io non venivo, per fortuna direi, da una famiglia di giornalisti (che stimo poco, così come i magistrati), e non avevo quindi quelle sovrastrutture che un po’ ti ingabbiano e confondono. Ero sgombro, libero. 

Mixer, nella sua semplicità, nella sua forza rivoluzionaria, e nella forza del concepire, chessò, l’uso del primo piano, diventa, rispetto al panorama dell’epoca, inedito, innovativo, originale, forte, e in grado di abbracciare più generazioni. Il problema, quando ideammo il programma, era superare la parola rotocalco, lo strumento tecnologico della carta stampata. E penso di essere riuscito grandemente nell’intento.

Fotografie di Ludovica Borghesi

A chi venne in mente la parola Mixer? A lei?

L’idea della parola Mixer, che dà un senso di eternità, venne a mia moglie Matilde.

Adelphi, qualche mese fa, ha editato “Oracolo manuale ovvero l’arte della prudenza” del grande Graciàn. Quanta prudenza ha esercitato nella sua vita, professionale, soprattutto? Ci dica la verità!

Questa è una bella domanda. Credo tantissimo, ma a modo mio.

Come interpretava i silenzi dei potenti.

Le interpretavo come delle risposte.

La tivù, puttana incallita, quanto l’ha tentata, accarezzata, corrotta?

All’inizio sì, perché negarlo?! Però ho sempre pensato a Dante che diceva: “Dio acceca chi vuol perdere”. E l’accecamento del nostro tempo è la televisione, e il credere di essere tu a comandare, quando invece è lei che comanda e gestisce te. Non mi sono mai atteggiamento a star, non ho mai praticata l’arte dell’essere divo. In questo, probabilmente, mi sono servite molto le lunghe chiacchierate con mio suocero Bernabei, tanto dannoso per la mia carriera quanto importante nella mia formazione professionale.

Quanto delirio di onnipotenza c’è stato nella sua vita?

Zero, mi creda. Momenti di grandi soddisfazioni per le cose fatte, sì, ma ho sempre pensato, e proprio nei momenti di grandi risultati, che le cose potessero andar male o, peggio ancora, finire. L’ho sempre tenuto a mente.

Quanta censura ha dovuto ingoiare nei suoi match televisivi o, soprattutto, nei corridoi?

Nessuno si è mai permesso di chiedere un taglio.

Mai nessuno si è permesso di telefonare ai piani alti?

Assolutamente no. Ed è la ragione per la quale ho fatto una carriera molto altalenante, con alti e bassi continui.

Nella sua esperienza africana, durata, se non erro, nove mesi – così racconta a Lorenzetto – Giovanni diventa più importante di Minoli… Serviva l’Africa per capirlo? Era troppo pieno di sé, in Italia?

In realtà scopro che Giovanni mi è più simpatico di Minoli. In Italia ero riempito di me, dagli altri. Per tutti ero Minoli, di Giovanni non fregava niente a nessuno. In Africa, in mezzo al nulla, e a situazioni estreme, tu sei quello che sei in quel preciso momento. Diciamo che in Africa ho completato il ciclo della mia auto-formazione.

Quanti lacché ha conosciuto e frequentato nella sua carriera?

Un numero infinito.

Fotografie di Ludovica Borghesi

E lei come li ha trattati?

Ho fatto fare carriera – lanciandoli, segnalandoli – ad un numero spropositato di persone, e sono contento di questo, perché ho sempre scelto bene. Umanamente, però, grandi delusioni. Pensando al Vangelo, e a Giuda, diciamo che mi è andata meglio!

Chi l’ha delusa di più?

Non glielo dirò mai, neanche sotto tortura.

Ha sofferto molto per questo?

Moltissimo, perché non sono cinico e invidioso.

Come si difendeva dinanzi a questa corte dei miracoli infinita?

Con la qualità delle persone che sceglievo. Sarai pure un lecchino – gli dicevo – ma siccome sei bravo, puoi lavorare e mettere in mostra le tue capacità!

Come riconosce il talento?

Dall’intuito.

Lei usa spesso la parola durezza, soprattutto quando parla di lavoro. Ma serve veramente a qualcosa?

Più che durezza, userei la parola inflessibile. Dio e il diavolo si nascondono nei particolari. Essere inflessibili aiuta a tirar fuori il meglio dalle persone, almeno secondo la mia esperienza. Per la qualità del prodotto, ho un controllo assoluto su ogni cosa. Ma sono anche la persona che riconosce il sacrosanto diritto di sbagliare, motivo per cui do sempre una seconda possibilità.

Si è mai chiesto da dove nasca il suo amore spasmodico per il tubo catodico?

E’ un fatto generazionale: i miei coetanei facevano i giornalisti e snobbavano la televisione, io pensavo che la televisione sarebbe stata il futuro. Adesso loro la inseguono.

Pensa di essere uno stronzo?

No, sono solo uno che insegna. I veri maestri non devono essere degli amici, ma dei veri interlocutori, proprio come i genitori, ma quelli di una volta.

Di quanta mentalità borghese è intrisa la sua vita?

Ho una mentalità borghese alla Cavour, alla Ottavio Minoli. Se lei la intende come, ad esempio, classe dirigente che si assume delle responsabilità, allora mi può definire molto borghese.

Fotografie di Ludovica Borghesi

Quanto ha dovuto scalciare o, peggio ancora, pugnalare, per fare poi la carriera che ha fatto?

Mai, assolutamente. Tutti pensano che io sia diventato qualcuno grazie a Craxi o a Bernabei o Martelli. Niente di più falso: da loro ho solo avuto rogne e fastidi. La mia carriera, ad essere sinceri, la devo a due donne: Elvira Sellerio e Letizia Moratti.

Cosa hanno fatto di così speciale le donne summenzionate?

Elvira – donna di grandissimo spessore umano ed intellettuale –  perché mi ha imposto di diventare direttore di rete. Letizia, invece, che conoscevo perché amico di suo marito Gianmarco, prima mi ha fatto fuori da direttore di Rai 2 e poi, successivamente, mi ha dato la possibilità di fare Format e Un posto al sole.

E’ mai stato codardo nella sua vita?

No, perché sono uomo leale e coraggioso.

Che rapporto ha con il denaro?

Un rapporto assolutamente sano. E, aggiungo, sono anche molto generoso con le persone. Le do un consiglio: non credere mai che, quando presti dei soldi a degli amici, ti vengano restituiti, tutt’altro.

I suoi più grandi nemici, sono stati gli uomini o, piuttosto, i suoi demoni, per dirla con Dostoevskji?

I miei demoni e gli uomini, poi, in funzione di come io vivo i miei demoni. Sono stato molto bravo a capire il talento e le capacità delle persone, ma mai a prevenire la loro ostilità, invidia e frustrazione.

Quali demoni si riconosce?

Fino ad un certo punto l’incapacità a saper distinguere la passione dall’ira. Sono una persona molto passionale; giustificavo l’ira perché pensavo che fosse una manifestazione, magari estrema, della passione. Niente di più sbagliato. L’ira è il demone che mi ha fatto fare tanti danni con le persone.

E’ stato più fedele alle sue idee o all’amore?

All’amore in senso lato sono stato molto fedele. Poi sono anche del parere che gli amori si stratificano e non si elidono.

Quindi, dicendo questo, vuole dire che, come Cavour, è stato un donnaiolo incallito. Giusto?

Donnaiolo no, ma ho amato tanto, ma mai in modo definitivo, se non mia moglie Matilde.

Ha fatto mai soffrire, quindi, Matilde?

Penso di sì, ma anche lei non è stato da meno.

Le piace ancora esercitare il fascino sulle donne?

Sempre. Ho una comunicazione facile con le donne.

Squilla ancora tanto il telefono, come accadeva una volta?

Parlo poco al telefono e non sono mai stato un uomo di pubbliche relazioni.

Fotografie di Ludovica Borghesi

Qual è stato l’errore, o l’orrore, più grande della sua carriera? Se lo ricorda?

Non essermi mai iscritto a nessun partito. Sono diventato direttore di rete negli anni di Tangentopoli, quando i partiti erano un po’ fuori dalla Rai per via delle vicende giudiziarie; quando sono rientrati a Viale Mazzini, mi hanno fatto fuori.

Con una vita molto dedita alla professione, ripensandoci, pensa di essere stato un buon padre?

Per venticinque anni ho lavorato sette giorni su sette. Non so se sono stato un buon padre. Amo moltissimo mia figlia…

Si, Minoli, la interrompo: l’amore non basta, però…

Con mia figlia Giulia ho avuto, e ho tuttora, un rapporto molto profondo, di grande scambio. E, nell’insieme, penso di essere stato un padre molto onesto e schietto con lei. Sicuramente meglio come padre che come marito.

Ha paura di invecchiare?

No, mai, e non me ne frega niente neanche di morire. L’unica mia speranza è quella di morire vivi.

Cosa emoziona Giovanni Minoli?

I pensieri, profondi, originali, che le persone incontrate instillano nella mia mente.

Guardandosi indietro, ha fatto la vita che voleva fare?

Assolutamente sì. l’unico rimpianto che ho è di non aver giocato a calcio ad altissimi livelli.

Era una schiappa sul rettangolo verde?

No, ero forte

Ha nostalgia della sua Torino? Perché ha detto che vorrebbe morire lì?

Ma perché Torino è la mia terra. E percepisco, inoltre, quando sono nella città natìa, l’effimero, e lo scorrere del tempo…

Qual è stata la colonna sonora della sua vita?

Tutti i cantanti italiani degli anni Sessanta-Settanta.

Qual è stato il dolore più grande della sua vita?

La perdita di mio padre. In quella macchina che si schiantò – mio padre morì d’incidente stradale – c’era il mio maestro, il mio amante, il mio idolo, la mia guida spirituale. Ho passato molti mesi, subito dopo la sua morte, pensando di non sopravvivere. Non sono morto anche io perché pensavo che lui era felice. Questo pensiero, che mi ha quasi fulminato, prima di tutti gli altri pensieri che poi son venuti fuori dalla mia mente e dal mio cuore, mi ha salvato la vita. Non pensavo esistesse un dolore così forte.

Lo pensa ancora tutti i giorni?

Sempre.

Ha una vicinanza a Dio? La sente?

Assolutamente sì.

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INTESTATO A: MELCHIONDA FRANCESCO

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