Ludovica Ripa di Meana

Ludovica Ripa di Meana è una cantastorie che, per passione e curiosità, è entrata nella vita degli altri – Gadda, Contini, Zeri, tanto per dire – per raccontarceli e farceli conoscere da angolazioni diverse, sotto luci sfumate, poco patinate, più intime e vere. Senza diploma liceale, i libri sono stati la sua indiscussa e infallibile guida, una lanterna perennemente accesa per addentrarsi e orientarsi nelle latebre della vita e degli uomini che ha amato e stimato. Nata ricca e fortunata, dopo gli agi e le comodità del benessere economico, Ludovica Ripa di Meana ha conosciuto la fame, gli stenti, l’umiliazione, per poi riscattarsi in un mondo, quello editoriale-giornalistico, abitato prevalentemente da uomini.

In un sabato primaverile, nonostante novembre sia piombato sulla Capitale quasi all’improvviso, questa donna minuta, lillipuziana oserei dire, e senza paura del Covid, ci accoglie nella sua casa senza remore, proprio come è stata la sua vita. Le ore trascorrono velocemente, il suo sguardo è camaleontico: a volte è superbo, affilato come una lama, altero; altre, invece, è dolce, mansueto, caloroso. Le sue risposte non hanno il sapore della diplomazia, dell’interesse o della vanità, tutt’altro.

Pur avendo avuto una vita piena, intensa, lunga, dolorosa, ha sempre cercato la sottrazione, la discrezione, il silenzio, l’angolo defilato, il passo indietro. E proprio per questo, non potevamo che incontrarla e, nella nostra piccola tribuna, darle, sicuramente e senza tentennamenti, la prima fila.

(F.M / checcogad@libero.it)

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Fotografie di Ludovica Borghesi

Ludovica Ripa di Meana, voglio cominciare questa conversazione partendo un po’ dalle sue origini. Lei nasce in una famiglia ricca, aristocratica. In un’intervista rilasciata a Francesco Merlo sulle pagine del Corriere della Sera, anno 1993, disse che la sua famiglia fu benedetta dalla povertà. Cosa voleva dire?

Ricca è dire tanto, una famiglia aristocratica sì, benestante direi. Ho avuto un’infanzia felice, privilegiata, fortunata. Siamo 7 figli e avevamo una governante tedesca, una cuoca, un attendente, due cameriere. Il fatto di aver perso questo privilegio, anche per via della guerra, in un’età di formazione, la ritengo un’esperienza quasi sacra, perché nel momento in cui crescevo, capivo le cose. Quando si è ricchi si è separati dalla realtà, perché la ricchezza crea un cristallo da cui non c’è più accesso alla vita vera. Di conseguenza, abbiamo fatto l’esperienza dei più che hanno poco, noi ci siamo sparsi in case di parenti più o meno benevoli, abbiamo fatto scuole non più elitarie. E questo ci ha fatto conoscere anche cosa vuol dire essere umiliati. Questa esperienza di povertà, mi ha dato una grande libertà di pensiero, liberandomi da sovrastrutture e gabbie mentali.

Come viveste la fame, la povertà?

I fratelli più grandi, soprattutto, e penso, ad esempio, a Vittorio, hanno sofferto di più. Consideri che, oltre ai danni della guerra, i miei genitori in quegli anni si separarono. Non potevamo, purtroppo, che vivere male gli stenti e le rinunce.

Quando avvenne la rinascita, il suo riscatto socio-economico?

Avevo fatto solo la quinta ginnasio, ma avevo una grande passione per la letteratura. All’inizio ho lavorato nella redazione del Contemporaneo, il settimanale culturale del PCI, diretto da Carlo Salinari e Antonello Trombadori, dove ho conosciuto gli intellettuali di sinistra famosi e no. Avevo conosciuto, da ragazzina, Nanni de Stefani, che era la figlia di un commediografo. Quando la incontrai, era diventata la seconda moglie di Feltrinelli. Giangiacomo aveva deciso di aprire la redazione romana della casa editrice, e Nanni mi chiese se volevo partecipare all’avventura. Naturalmente accettai, affiancando, nel lavoro editoriale, Giorgio Bassani; successivamente, mi trasferii a Milano e lavorai con Elio Vittorini.

Se non erro, eravate sette fratelli; a quale era legato, anche per affinità caratteriali e culturali, in modo particolare?

In età adulta le affinità le ho avute, e le ho, con le mie sorelle. Da giovane, ero legata molto a Carlo, allora avevamo molte affinità e interessi comuni. Cesare Cases, che era un grande germanista, oltreché un amico comune, ci diceva che io e Carlo parlavamo il “meanico”, tanto era forte il nostro legame. Carlo è stato un fratello che ho molto amato, era molto intelligente con un vero talento politico di mediatore, ma nella seconda parte della sua vita non mi è piaciuto il suo sodalizio con Marina.

Fotografie di Ludovica Borghesi

Perché non le piaceva?

Non mi piaceva perché era un sodalizio che ha fondato e diffuso la sguaiataggine, l’incontinenza verbale, insomma, il trash prima in televisione poi nei social. Erano esibizionisti, trasgressivi, e avevano spesso un comportamento, anche eticamente, molto discutibile.

Marina Ripa di Meana è stata, nel nostro Paese, un’icona. Donna esuberante, intelligente, trasgressiva, vanitosa come pochi. Che rapporto avevate?

Intanto, mi lasci dire che Marina era una donna bellissima, e capivo perché Carlo si fosse innamorato di lei. E agli inizi i nostri rapporti erano anche buoni, perché Marina non era così volutamente estrema. Spesso ho pensato che Marina non fosse molto equilibrata mentalmente, aveva degli sbalzi umorali ciclotimici, poco comprensibili e insopportabili per gli altri.

Da ragazzina, scoprì i libri. In ogni occasione, si è sempre definita un’accanita lettrice. Com’è nato il suo amore per i libri?

Fondamentali sono state le letture quando ero bambina. La governante mi leggeva le favole in tedesco, e io adoravo quelle dei Grimm soprattutto. E poi, crescendo, scoprivo nuovi mondi con i libri che avevamo in casa; penso, tanto per fare un esempio, all’enciclopedia per ragazzi, la biblioteca rosa e la biblioteca dei ragazzi.

Le letture, come spesso accade per chi ha interrotto gli studi, sono state irregolari. Come si orientava nella scelta degli autori?

Di solito, mi documentavo. Ma, spesso, sceglievo anche istintivamente. Per esempio, io ho letto Gadda e Joyce pur non avendo nessuna attrezzatura linguistica e filologica per leggerli e capirli. E invece io, che avevo solo la quinta ginnasio, li capivo e sentivo con naturalezza e li vivevo come se li conoscessi da sempre.

Quali autori, nella sua vita, considera imprescindibili, vitali? E perché?

Alla fine della vita, nello stadio in cui mi trovo, sicuramente Dante (anche per la consuetudine che ne ho avuto con Vittorio), Shakespeare, Simone Weil, Gadda, Paul Celan, Rilke, Proust, Puskin, la Bibbia e i Vangeli. Sono testi e autori che reputo assoluti.

Quante vite ha vissuto attraverso i libri?

Tutte le vite di quei libri. Tutto quello che quei libri raccontano.

Non avendo potuto terminare gli studi, i libri sono stati l’impalcatura della sua formazione. Com’è arrivata al giornalismo?

Mi chiamarono quando fecero il nuovo Europeo, affidato a quel tempo a Mario Pirani. Accettai sia pure dubitando, all’inizio, di esserne in grado e mi assegnarono nella sezione Cultura.

Fotografie di Ludovica Borghesi

Quanto è stata cinica e invadente nel lavoro di giornalista?

Non lo sono stata mai, detesto chi lo è.

Da giornalista, quale direttore ha detestato di più? E perché?

Francamente nessuno: Mario Pirani, Lamberto Sechi, Pasquale Nonno, perché avrei dovuto visto che erano persone gentili, intelligenti, competenti?

Le sarebbe piaciuto lavorare più con Scalfari o con Giuliano Ferrara? Perché?

A istinto direi con Giuliano Ferrara, ma chi lo sa!…

Oltre ai giornali cartacei, le capita di curiosare e informarsi anche su Dagospia?

Ho conosciuto Roberto D’Agostino da ragazzo quando lui lavorava in banca e io all’Europeo, e voleva collaborare tenendo una rubrica di musica leggera sul settimanale. Mi sembrava intelligente e simpatico, quindi perorai la sua causa e riuscii a convincere, credo Valerio Riva, a affidargliela.  No, di solito non pratico Dagospia anche perché non frequento molto i social, forse son troppo vecchia per apprezzare la liquidità del web. Capisco di non essere gentile dicendo questo, dato che questa intervista, che sono contentissima di fare, uscirà proprio sul web.

Pensa anche lei, come Roberto D’Agostino, che il pettegolezzo non sia affatto da criticare, ma che nella diceria, ci sia, piuttosto, la vita vera delle persone?

Ma credo che la vita vera è dappertutto, basta aver voglia di cercarla.

Il suo lavoro, sovente, ha preso la piega dell’intervista. Come nasce il suo amore per l’intervista?

Per curiosità e perché m’interessano gli altri, enormemente! Io non vivo senza gli altri. Non ho un io isolato, non scrivo per me – io non m’interesso – forse per questo ho fatto delle buone interviste? Mi ha sempre affascinato entrare nelle vite delle persone, nei loro pensieri, nei loro gusti, nella loro fondamentale alterità.

Che doti, secondo lei, deve avere un intervistatore?

La prima dote che si deve avere è l’onestà intellettuale, avere un rapporto onesto, paritario con l’intervistato, non cercare di estrargli cose che pensiamo noi, non affettare competenze che non si hanno, non cercare di rubargli risposte che sicuramente farebbero scandalo (vedi i talkshow), non essere ipocriti. Avere passione per l’altro e per la sua diversità.

Gadda e Contini, due intellettuali e scrittori agli antipodi, sono stati attraversati, se così possiamo dire, dalle sue domande e curiosità. Partendo da Gadda, mi soffermerei su una sua descrizione: “Clown desolato, inondato di luce”. Perché lo definì clown desolato?

Gadda aveva una donna, Giuseppina Liberati, che si occupava delle sue faccende domestiche. Lo trattava come fosse un bambino di pochi anni. Un giorno lo trovai seduto su una poltrona da giardino, in vestaglia e, al collo, un tovagliolo bianco macchiato di cibo. Entrai nella sua stanza e lo trovai così, arreso, desolato; ma lui era già, oggettivamente, sul crinale tra lucidità e demenza.

Anche lei pensa, come tanti, che Gadda sia stato il più grande scrittore del Novecento Italiano? Dove scorge la sua grandezza?

Sì, lo penso. La scrittura di Gadda ha una forza spaventosa. Lui sceglie le parole con una precisione chirurgica e sintesi davvero impressionanti, ogni parola scelta vuol dire anche mille altre cose. E poi mi ha fatto fare un viaggio spericolato nella lingua italiana.

Le è piaciuto più il Pasticciaccio o la Cognizione del dolore?

Anche se il Pasticciaccio ci ha svelato una Roma mai vista prima così da nessuno, direi la Cognizione: è un testo tragico; nella sua lingua folle, spregiudicata e bestemmiatrice, racconta quell’incredibile  rapporto edipico tra madre e figlio. Ha la grandezza dei classici.

Diligenza e Voluttà è stato il libro-intervista che ha fatto, secondo il mio modesto punto di vista, scuola. Perché decise, tra i tanti Maestri, d’incontrare Contini e farne, insieme, un libro?

La prima intervista che feci a Contini fu quando uscì la Cronica dell’Anonimo Romano, che aveva la sua prefazione. L’allora responsabile delle pagine culturali dell’Europeo, Valerio Riva, nella quotidiana riunione di redazione, mi diede l’incarico d’incontrarlo per conto del giornale. Partii per Firenze tremando perché, come si può immaginare, pur avendo letto il libro e aver trovato bellissima la morte di Cola di Rienzo, non ero attrezzata per sostenere una conversazione con Contini. Trovai un uomo con forti problemi di comunicazione, anni prima aveva avuto un ictus. Quando parlava le parole slittavano le une sulle altre. Insomma, era arduo capirlo, a volte impossibile. Successe una cosa miracolosa: sapendo di essere inerme dinanzi al suo infinito sapere, mi concentrai fino all’inverosimile per tentare di capire e rendere intellegibili e lineari le sue parole. E lui, vedendomi in difficoltà, fu di una magnanimità, di un’altezza mentale veramente stupefacenti. Dopo avermela approvata, l’intervista uscì, e da lì cominciammo l’abitudine di sentirci al telefono, di mandarci delle cartoline, soprattutto in estate.

Questo fu il nostro primo incontro. Successivamente, quando Vittorio ebbe finito l’Inferno di Dante, il direttore di Rairadio3, Fabio Borrelli, mi chiese d’intervistarlo per la radio. Ovviamente, l’intervista non uscì perché, nonostante l’intervento dei tecnici audio della Rai, le sue parole non erano trasmissibili per radio proprio per via della sua menomazione linguistica – che paradosso! Così, sbobinai accuratamente quei nostri incontri, durati circa 8 giorni a Domodossola dove era tornato a vivere dopo Firenze, che confluirono in Diligenza e voluttà, libro che ha fatto conoscere, al grande pubblico, un altro Contini. Rileggendo le sue risposte, prima della pubblicazione del libro, Contini mi disse una cosa bellissima: “ho risentito la mia voce”.

Cesare Segre, nella sua autobiografia Per curiosità, a proposito di Contini, ha scritto: era un grande maestro, ma, anche, uomo con degli sbalzi umorali pazzeschi. Conferma?

Posso crederlo, ma non l’ho frequentato abbastanza per poterlo dire e, con me, non li ha mai avuti.

Cosa la colpì in modo particolare, durante la stesura dell’intervista al filologo piemontese?

La sua generosa disponibilità.

Contini, da par suo, aveva scorto, in lei, una delle tre virtù teologali, la carità. Ci può raccontare questo episodio, curioso e significativo allo stesso tempo?

Me lo riferì Vittorio. (A questo punto, Ludovica apre un saggio sulla sua opera – Altro essendo dagli altri essendo te di Andrea Casoli – e legge, con voce chiara e nitida, l’aneddoto vergato proprio da Sermonti nella postfazione al libro: «Anno 1987, Firenze, mezzanino di via Lorenzo il Magnifico, mi sto congedando dal professore, e lui, campito nel vano della porta della cucina dove abbiamo lavorato a un paio di canti dell’Inferno di Dante, forza la voce per dirmi: “E mi saluti tanto Ludovica; ma tanto: perché Ludovica è bella, è elegante, è molto intelligente, cose che possono succedere a molte… Ma una cosa rarissima ha: la carità”».)

Nell’incipit del libro con il filologo, mi ha colpito la dedica che lei ha vergato. Leggo testualmente: «quando saranno grandi, spero che Marzia e Francesco, leggendo questo libro, imparino la passione di ammirare e ringraziare». Cosa la spinse a fare questa dedica?

Con questa dedica volevo innanzitutto dire a Contini quanto fosse vera e alta la mia gratitudine per lui e per quello che mi aveva concesso di fare insieme. E poi, quando scrissi quelle parole, la speranza era che i miei due nipoti ancora bambini, Marzia e Francesco, figli dei miei due amatissimi figli, capissero quanto fossero importanti, nella vita, la gratitudine e l’ammirazione.

Fotografie di Ludovica Borghesi

Nella sua carriera c’è stato spazio anche per la poesia. Quando ha capito che i suoi versi avevano sostanza, trasmettevano un’emozione, una malinconia?

Ho cominciato a scrivere versi in modo regolare, continuativo, dopo un viaggio in Francia sul finire degli anni Ottanta che Vittorio e io abbiamo fatto dopo essere passati da Domodossola per salutare Contini e andare a vedere per la prima volta Meana, un paesino al confine che dà il cognome alla mia famiglia. Arrivati a Vienne, un paese vicino Lione dove c’è una stupenda cattedrale, abbiamo preso un acquazzone, e tornati in albergo, la notte a letto, ho avuto una crisi di asma micidiale: una pietra mi schiacciava il petto, non riuscivo più a respirare, ero diventata blu. Un medico algerino trovato fortunosamente da Vittorio, mi diede del cortisone e mi salvò letteralmente la vita. Tornata in Italia, per via dei dolori, non riuscivo a dormire. Vittorio, allora, mi disse: ma perché non scrivi di quello che ti è successo? La notte, mi mettevo a scrivere, e quando Vittorio lesse quello che avevo scritto, mi disse: e ora continua, credo ne valga la pena. Gli ho dato retta e ho cominciato a scrivere di quando io e mia sorella eravamo piccole, la vita famigliare, la guerra, quello che poi è diventato il mio primo romanzo, La sorella dell’Ave. Quando Vittorio leggeva man mano il mio lavoro, mi diceva: ma tu scrivi in versi! Io mi stupivo, credevo mi prendesse in giro, naturalmente aveva ragione lui. Da quel viaggio iniziatico e disgraziato, a Meana, che mi è quasi costata la vita, e dalla conseguente insonnia, ho scoperto di scrivere seguendo i ritmi e il canto di un poeta.

Di quale poesia va più fiera?

Non ho una poesia di cui andare fiera. Quel che posso dire, il libro che mi ha dato maggiore pienezza e felicità è, sicuramente, Voi non sapete che non ho paura: un libro temerario, anche editorialmente, perché inclassificabile, una sintesi di prosa e poesia, con una prefazione preziosa alla comprensione del tutto di Davide Tortorella, dove c’è cosa Vittorio è stato –– ed è –– per me, un’apnea nella ricerca del senso dell’essere e di quel poco di verità che ci è concesso raggiungere a noi uomini, un ibrido letterario che spero raggiunga almeno altri impregiudicati, cioè liberi senza pregiudizi, come me.

Contini ha definito Dante Alighieri il più grande autore popolare, un poeta cosmico, nel senso di universale. Lo pensa anche lei?

Sono solo una pulce, ma altroché se lo penso! Leggere la Commedia è un’esperienza unica, mistica. Che ti cambia la vita.

Fotografie di Ludovica Borghesi

Cosa pensa, criticamente, di Patrizia Valduga? Le piace come poeta?

Sì, abbastanza, ma è troppo solenne con se stessa. E’ una brava poetessa. Preferisco, però, Patrizia Cavalli, perché è più vera, più spudorata, appassionata anche nell’esercizio di una certa malvagità.

Quanto ha contato, per lei, l’erotismo?

Moltissimo!

Si ritiene più una donna romantica o passionale?

Non lo so.

Ha più amato o più è stata amata?

Le due cose: sono stata molto amata e ho molto amato, e con Vittorio ho raggiunto, forse, l’equilibrio tra il dare e il ricevere. Non posso vivere senza amore, anche adesso a quasi 88 anni amo come ne avessi 8.

Perché, come lei stessa ha dichiarato, non riusciva più a scrivere?

Era come se avessi perduto lo stimolo di raccontare delle storie; mi sembrava di non poter dire più niente di appassionante, diverso. Non riuscivo più ad incuriosirmi. Non mi arrivava più l’emozione che mi spingeva a descrivere una cosa, un personaggio, un dettaglio.

Negli anni della giovinezza, si è sentita più bella o affascinante?

Può darsi affascinante, forse qualcuno mi riteneva bella.

Il fatto di non sapere di essere bella, l’ha salvata anche dal tradire gli uomini?

Non credo. I tradimenti, che comunque ci sono stati, nascono dai sentimenti, almeno per come sono fatta io.

Non dalla debolezza carnale?

La sensualità sicuramente ha un peso enorme in una relazione ma, per me, ciò che poi ha influito nei miei comportamenti, nelle mie scelte, è stato il sentimento.

Qual è il suo peggior difetto?

La suscettibilità e una certa pigrizia nell’affrontare cose che mi annoiano. In più, sono molto esigente.

Nella vita, è stata più giudicante e antipatica o tollerante?

Sono severa, e credo che questo tempo slabbrato, privo del senso di responsabilità, abbia bisogno di severità e di bontà che, insieme, non si elidono affatto, anzi.

L’incontro con Vittorio Sermonti le ha cambiato la vita. Un amore adulto, maturo, avvenuto quando lei aveva cinquant’anni. Aspettare Sermonti ne valeva la pena, tutte le pene, ha detto lei. Perché?

Era l’amore che cercavo fin dall’inizio della vita. Vittorio e io ci siamo incontrati e siamo diventati un ermafrodito. Sentivamo le stesse cose, pensavamo allo stesso modo, e poi avevamo delle affinità anche in relazione ai nostri talenti.

Fotografie di Ludovica Borghesi

Nell’amore per Sermonti ha mai provato un senso di debolezza, di fragilità, sensazioni dettate quando ci si concede all’altro?

Io sentivo, capivo le sue, di debolezze: le donne, forse perché partoriscono, sono più coraggiose, temerarie dei maschi, anche nell’indagine di sé.   

Si, ho capito, ma quali sono state le debolezze o fragilità di suo marito?

Beh, quando l’ho incontrato, ad esempio, l’attività editoriale ed intellettuale di Vittorio non era riconosciuta e apprezzata per quel che valeva. Ricordo che quando faceva delle traduzioni per la Rai, veniva pagato una miseria. Pochi, all’inizio soprattutto, avevano capito la grandezza e bravura di Vittorio; anche se uno di questi fu Roberto Longhi. Gli Agnelli, con i quali era imparentato per via del suo primo matrimonio con la figlia di Suni, lo trattarono quasi come un paria. Che vergogna! La mancanza di riconoscimento lo frustrava, per certi versi l’aveva indebolito, fiaccato. Sono stata io, avendo capito il suo talento, a sobillarlo e stimolarlo a non arrendersi, a insistere.

Cesare Segre, sempre nella sua autobiografia, ha detto che il plagio, tra gli scrittori, è una cosa indegna. Come ha vissuto il “furto” di Benigni che, in occasione di uno spettacolo su Dante, fece una dedica alla moglie Nicoletta, rubando, letteralmente, le parole che Vittorio, invece, aveva dedicato a lei, e senza citarlo?

Benigni, per promuoversi, ha saccheggiato (persino nella dedica!) la geniale opera che Vittorio ha fatto sulla Commedia di Dante, facendola passare per farina del suo sacco: mi fa pena.

Non vi siete mai separati, mai traditi?

Mai!

A proposito di Vittorio, le faccio una domanda, che, in realtà, è una domanda che si è posta lei: come faccio a continuare ad amarti adesso che sei lontano, io che non so amare chi è lontano?

Che vuole che le dica? Sono disperata di averlo perso, ma, sapendo che l’amore è anche qualcosa di invisibile, astratto per certi versi, continuo ad amarlo anche se fisicamente non c’è più.

Come vive queste giornate in questo vuoto che, a quanto sembra, pare incolmabile?

Guardi, la vecchiaia, è tremenda e munifica: ti toglie tutto e ti fa capire tutto, ti dà una libertà mentale assoluta, una sapienza profonda, una reale comprensione delle cose, della vita, delle persone. È un’esperienza sconvolgente: la vecchiaia ti rende sapiente come i profeti.

Per dirla con Contini, è stata più impregiudicata nel lavoro o nell’amore?

Sia nell’amore che nell’opera, si può dire.

Cos’è, per lei, la follia?

Senza la follia non ci sarebbe la Pietà Rondanini di Michelangelo, non ci sarebbero i linguaggi dell’arte, la follia fa parte della vita, a volte è necessaria averne almeno un po’ per ideare le grandi imprese dell’uomo come andare nello spazio, per esempio; allo stesso tempo, però, ritengo che la follia sia  atrocemente noiosa, perché sopportare le ossessioni degli altri, il dominio che i pazzi esercitano sulle persone sane, è qualcosa che crea, in chi la deve sopportare, incommensurabile fatica, spesso inutile, e un lungo dolore. Non parliamo di quanto possa diventare pericolosa quando un pazzo ha in mano le leve del potere…

Tra i tanti libri scritti da Vittorio, quali sono stati, secondo lei, i libri meno riusciti e interessanti?

Per me Pierrot Badini. E anche I giorni travestiti da giorni, pur avendo delle parti molto belle, non è perfettamente riuscito. Il tempo fra cane e lupo, invece, è meraviglioso.

Giampiero Mughini, anni fa, scrisse un libro che s’intitolava Memorie di un rinnegato. Le è mai capitato, soprattutto nella sua carriera, di rinnegare qualcosa, o qualcuno?

Ad essere onesta, penso sia inevitabile trovarsi a rinnegare qualcosa, perché, per fortuna, nella vita è concesso di poter cambiare idea. Moltissime delle cose che pensavo e dicevo da giovane, le ho poi rinnegate, ma perché non usare la parola: ripensamenti?

Le ha rinnegate per ambizione, arrivismo, tornaconto?

No, solo per reale convincimento. La vita ci dimostra che niente è immutabile, men che meno le nostre affermazioni, i nostri pensieri. Quando si è giovani, si dicono e pensano un sacco di sciocchezze nella convinzione di sapere tutto meglio degli altri…

Ha mai fatto parte di una clan, di una cricca editorial-giornalistica?

Mai!

Perché?

Perché mi sento una donna assolutamente libera, che non ama appartenere a nessuno.

In passato, se non ricordo male, ha usato parole morbide verso il trascorrere degli anni. Lo pensa ancora?

Come ho detto, la vecchiaia ti fa capire tutto, naturalmente capire tutto è magnifico e tremendo.

Nel suo ultimo libro, pubblicato dalla Garzanti, ha scelto, come titolo, Voi non sapete che non ho paura. Lo pensa sul serio o era una mera provocazione commerciale?

È il primo verso di una delle poesie contenuta nel libro e non è, di certo, un’operazione commerciale. Come tutti gli esseri umani, certo che ho avuto e ho ancora paura di certe cose, ma ho affrontata la vita senza timore.

Qual è il posto del cuore? E perché?

Kythira, un’isola greca sotto il dito più lungo del Peloponneso e subito sopra Creta: l’isola dove è nata Venere e dove Vittorio e io siamo andati per 25 anni e abbiamo scritto gran parte del nostro lavoro: si è direttamente immessi nel mito, ci sono parti dell’isola in cui il rapporto con il mare è lo stesso immutato di quello che hanno avuto Ulisse e i suoi compagni di rotta. Di una bellezza da toglierti il fiato e di cui poi non puoi più farne a meno. Lo so ora che sono senza, anche di Kythira.

Pensa spesso alla morte?

Penso spesso alla morte, ma senza averne paura. Posso farle una domanda ora io a lei, cambiando il mio ruolo da intervistata a intervistatrice: perché ha avuto paura di farmi una domanda su Dio, dato che è uno dei temi principali di Voi non sapete che non ho paura? Cosa c’è di più “intellettualmente dissidente”, in una società completamente laicizzata, del tema di Dio?

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INTESTATO A: MELCHIONDA FRANCESCO

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