La prima volta che il nome di Marco Travaglio è apparso ai miei occhi risale al lontanissimo marzo 2001. L’Italia era nel pieno della campagna elettorale. Da una parte Rutelli, dall’altra, ovviamente, Silvio Berlusconi. Una tenzone noiosa, sbiadita, per nulla eccitante, e, naturalmente, con un grande favorito. Di lì a poco, infatti, gli italiani, senza fare troppo gli schizzinosi, avrebbero consegnato le chiavi dello Stivale a Sua Emittenza, per dirla con Giampaolo Pansa.
Pungolato da Daniele Luttazzi, nel suo Satyricon, il neanche quarantenne Travaglio presentava, al grande pubblico, il suo “L’odore dei soldi”. Apriti cielo! Un caso editoriale, sebbene non fosse proprio un libro. Centinaia di migliaia di persone che si affrettarono a prenotare un documento finora clandestino, o quasi. Putiferio, da destra… I lacchè della corte subito pronti ad inveire: come avete osato? A sinistra, invece, si gongolò.
Illusoriamente, infatti, i sinistrorsi speravano che un libro potesse equilibrare il match tra i due Poli… Macché: il tonfo per la compagine rutelliana fu pesante, e le sberle prese da far impallidire.
Ho cercato, da quel lontanissimo inizio di secolo, di seguire, attraverso i libri e le migliaia di articoli, un po’ le traiettorie, le idiosincrasie e simpatie di Travaglio. Nell’intervistarlo, volevo provare a capire meglio cosa ci fosse dietro quella sua parvenza di durezza, inflessibilità, imperscrutabilità, e tirarlo fuori dai soliti talk di cui il tubo catodico è zeppo.
E così, prima del “rompete le righe” agostano, gli mando un messaggio per sondare la sua disponibilità. Dopo pochi minuti, mi arriva la sua risposta. Restiamo intesi che al rientro nella Capitale, ci si senta per concordare il faccia a faccia.
Mi aspetta, in redazione, in una giornata umida, afosa… La sua stanza è ricolma di libri, appunti e ritagli di giornale. Eh sì, perché il Nostro, ancor prima di dire la sua con editoriali al vetriolo e satireggianti, spolvera il suo archivio cartaceo infinito e fa parlare con detti e contraddetti i suoi bersagli preferiti. Il mastodontico mondo di carta, che coltiva e conserva con estrema cura e attenzione, è la sua schiavitù ma, al contempo, la sua più preziosa arma per difendersi da chi prova, ogni giorno, giustamente aggiungo, a smentirlo e contraddirlo…
* * *

Marco Travaglio, l’anno prossimo compie 60 anni: qual è stato il dolore più grande che ha cagionato?
Non credo di aver cagionato chissà quale dolore, e se l’ho fatto, credo di averlo rimosso. Ma, se mi viene in mente qualcosa, te lo dico dopo.
Sempre impassibile, freddo, il ghigno… Mi sono domandato: ma Travaglio avrà avuto qualche momento di smarrimento nella sua vita?
Beh, tantissimi…
Ah sì, e quali? Sentiamo…
Soprattutto quando ho dovuto fare delle scelte professionali. La prima fu nel 1992. Collaboravo con il Giornale di Montanelli; facevo l’abusivo, si diceva allora, e guadagnavo poco più di un milione di lire. Mi contattano quelli di Repubblica e mi propongono l’assunzione e uno stipendio di quattro milioni e mezzo. Il giornale di Scalfari lo detestavo, era lontanissimo dal mio modo di essere e pensare, però mi dava la possibilità di guadagnare bene e mettere su famiglia. Una mattina vado da Montanelli e gli dico: direttore, Repubblica mi ha offerto un contratto di assunzione. O il Giornale mi propone qualcosa di stabile, oppure sono costretto ad andar via. Lui mi fa: Marco, non ti preoccupare, parlo subito con l’amministrazione. Invece l’amministratore delegato mi rimbalza, dicendomi che di assumermi non se ne parla. Vado in lacrime da Montanelli per dirgli che l’indomani accetterò obtorto collo l’offerta di Repubblica. La mattina successiva sono in Tribunale, a Torino. Mi chiamano dal Giornale: è il direttore, che è nella stanza con l’amministratore delegato. Me lo passa: quello mi dice che ho frainteso le sue parole e sarò assunto. Qualche ora dopo, dalla redazione, mi dicono che le urla di Montanelli si sentivano su dalle scale: aveva fatto fuoco e fiamme perché la proprietà mi facesse un contratto. Ma la scelta più difficile fu nel 1998. La Voce aveva chiuso nell’aprile del ’95 e da allora campavo di “marchette”, collaborazioni: Indipendente, Giorno, Cuore, MicroMega, Borghese, l’Espresso del grande Claudio Rinaldi… Mi sentivo, come puoi immaginare, spaesato. All’improvviso, dopo tre anni a spasso, ricevo tre offerte contemporaneamente: Moby Dick con Santoro, di nuovo si fa sotto Repubblica e Pinocchio con Gad Lerner. Alla fine, dico no a Gad e anche a Santoro (che allora lavorava a Mediaset) e scelgo Repubblica: tra carta stampata e televisione, carta stampata tutta la vita.
Com’era da bambino? Più timido o brutto?
Non ero affatto brutto. Ero un bel bambino biondo con i capelli a spinacio. Più che timido, un po’ stronzo…
Le è rimasta, allora, la patente dello stronzo…
Bah… Volevo avere sempre l’ultima parola, in famiglia come all’asilo come a scuola. Le suore della materna mi chiamavano “contestatore” (c’era il Sessantotto, anche se io non lo sapevo) e “Renzo Travaglino”.
Cattolico e peccatore, così dicono le cronache.
Sicuramente sono un peccatore eclettico. Di peccati ne ho commessi tanti, ma non ci vedo alcuna incompatibilità con l’essere credente. La fede è un dono, non un merito. E poi, se non sbaglio, il regno dei cieli è per i peccatori, non per i santi: altrimenti sarebbe deserto, e io sarei fottuto!
Ha mai avuto pulsioni omosessuali?
Mai.

È più taccagno, spregiudicato o fanatico?
Non sono per niente taccagno. Spregiudicato non penso, anzi, tutti mi dicono che sono una personalità controllante…
Beh, la sua scrittura è molto spregiudicata, e da come si scrive, si capisce anche cosa si è…
Ah, in quel senso sì. Ma, più che spregiudicato, sono proprio incosciente. Quando scrivo, se devo usare un aggettivo o un epiteto forte, che porta dritto alla querela, beh sì, io me la rischio. Cerco sempre di portare la mia libertà al limite estremo. E di allargare ogni volta quel confine.
È fanatico?
No, ma credo fermamente in alcuni principi fondamentali.
Pensa di avere una parte femminile? Quale?
Molti me l’attribuiscono… Girava anche voce anche io fossi gay. E mi han detto che tra gli omosessuali sono un’icona gay, anche se non ho mai capito cosa significhi e cosa si debba fare per diventarlo. Ma io sono il peggiore analista di me stesso: se altri vedono qualcosa, vorrà dire che magari c’è.
I suoi libri, seppur venduti, sono editi, sovente, da case editrici medio-piccole; come mai i colossi editoriali la ignorano totalmente?
Molto banalmente, non possono pubblicare quello che scrivo. Le faccio un esempio: nel 2001 la Feltrinelli propone a me, Peter Gomez e Gianni Barbacetto di scrivere la vera storia di Mani Pulite. Essendo la vera storia, raccontiamo anche le tangenti rosse. A quel punto Carlo Feltrinelli e i suoi ci chiedono di tagliare una ventina di pagina perché il libro è venuto di 930: guarda caso, proprio le pagine sulle tangenti rosse. Rifiutiamo, salutiamo la storica casa editrice della sinistra e diamo il libro agli Editori Riuniti, anch’essi di sinistra ma allergici alle censure, precludendoci il successo di vendite che avremmo avuto con Feltrinelli.
Si è mai chiesto del perché i critici, tutti, o quasi, snobbano quello che scrive: libri modesti, forse?
I miei libri arrivano sempre in cima alle classifiche, ma non vengono mai recensiti da nessuno. Chissenefrega.

Vero… A me, ad esempio, piacerebbe da matti leggere una stroncatura su qualche suo pamphlet, almeno se ne parlerebbe…
Anche a me. Ma ti giuro che non me ne importa più nulla. Ci ho fatto il callo, tanto con il web e il passaparola c’è modo di far sapere alla gente che ci sono anche i miei libri. Mi ha molto divertito quando è uscito il libro “I segreti del Conticidio”. Ci sono state diverse recensioni prima che il saggio uscisse, perché credevano di sapere quello che avrei scritto, e cioè un complotto internazionale contro Conte. Poi il libro è uscito senz’alcun accenno a complotti internazionali: il Conticidio è stato una congiura di palazzo, anzi di palazzi, tutta italiana. Ecco: leggere recensioni preventive mentre stavo ancora scrivendo il libro mi ha fatto molto ridere. Ma ci sono abituato: in Italia un premio letterario e un posto in qualche giuria non si nega a nessuno: io per fortuna sono escluso, così non devo neppure rifiutare. Perché certi premi, come diceva Leo Longanesi, non basta rifiutarli: bisogna proprio non meritarli. Ti racconto un aneddoto: nell’estate del 2008, io, Peter Gomez e Corrias, vinciamo il premio Ischia, e veniamo convocati per la premiazione nell’isola, alla presenza di tutto l’establishment editorial-giornalistico. Avevano commesso l’errore di inserire, tra i tanti, un premio al miglior blog e di farlo votare dagli internauti, che avevano scelto il nostro, “Voglioscendere”. Subito prima di noi premiarono Augusto Minzolini per il suo Tg1, definito il telegiornale più libero d’Italia. In platea, seduti dietro di noi, ne sghignazzavano persino Pippo Marra e Giancarlo Elia Valori. Poi salimmo noi e, per la paura che dicessimo qualcosa che disturbasse qualche potente presente o assente, ci diedero la targa e, senza farci neanche far un saluto di ringraziamento, ci spinsero subito giù dal palco…
Quanto ha guadagnato con “L’odore dei soldi”?
Poco, purtroppo, perché il libro vendette oltre un milione e mezzo di copie, ma la casa editrice – sempre Editori Riuniti – fallì prima di pagare a me e a Elio Veltri la gran parte delle royalty…
Con il distacco del tempo, quali libri, tra quelli che ha scritto, reputa mediocri, modesti?
Beh, per esempio “L’odore dei soldi”: era una collazione di documenti su Berlusconi, che di “scritto” aveva ben poco. Interessante, ma noiosa.
Qual è, invece, quello che l’ha fatto godere di più?
I due libri che ho scritto su Montanelli, il mio unico idolo: “Montanelli e il Cavaliere” e “Indro: il 900”.
Dove nasce il suo amore per i processi e la cronaca giudiziaria?
Dalla mia storia di cronista. Facevo il vice-corrispondente per il Giornale. Erano gli anni di Tangentopoli e io, da Torino, seguivo le vicende giudiziarie che coinvolgevano la Fiat, i suoi falsi in bilancio e le sue tangenti ai partiti. Successivamente sono arrivate le inchieste e i processi a Berlusconi: politica e giustizia sono diventati un tutt’uno. A furia di frequentare procure della Repubblica e aule di tribunale, la cronaca giudiziaria è diventata la mia attività principale. E anche la più appassionante: è interessantissimo assistere a tanti spaccati di vita reale in un’aula di tribunale: capisci molte cose…
E cosa ha capito?
Che in Italia rubano soprattutto i ricchi.

Mario Giordano, per diverso tempo, è stato un suo braccio destro; se l’aspettava la carriera che ha fatto?
Sì, perché era bravo. Lo conobbi al “Nostro Tempo”, un settimanale cattolico di Torino, diretto da Domenico Agasso e condiretto da Mariapia Bonanate. Eravamo in pochi, facevo un lavoro immane. Mario era sveglio e scriveva bene: Agasso lo adibì, dopo un po’ di gavetta, alla divulgazione economica. All’epoca studiava Economia, quindi conosceva bene la materia e sapeva renderla comprensibile a tutti. Quando ho cominciato a collaborare anche col Giornale, gli chiesi una mano per le interviste ai calciatori negli spogliatoi delle partite della Juve e del Toro, perché, tra le altre cose, mi occupavo anche di calcio.
Perché se così bravo, come dice, non gli ha proposto di collaborare come firma del Fatto? Troppo destrorso e berlusconiano per lei?
Semplice: Mario a Mediaset guadagna cifre che noi non possiamo permetterci… Molto di più di me, credo…
Negli anni di Tangentopoli, chi erano i potenti che hanno provato a metterle la mordacchia, magari anche non direttamente? Fuori i nomi…!
La Fiat e la Fininvest. Io sono stato cacciato da diversi giornali perché gli uffici pubblicitari dei quotidiani venivano raggiunti da telefonate delle due mega-ditte: se continuate a far scrivere Travaglio, vi togliamo la pubblicità e, di conseguenza, i soldi. La Fiat ci provò addirittura con Montanelli, alla fine del 1993, ma io lo scoprii solo due anni dopo leggendo il libro di Federico Orlando “Il sabato andavamo ad Arcore”. In quegli anni, sui processi alla Fiat, quasi tutti scrivevano solo quello che voleva la Fiat. Indro, all’incontro con l’Avvocato, mandò Orlando, che era il suo vice. Cesare Romiti e Gianni Agnelli, in sostanza, gli dissero che non dovevo più occuparmi del processo alla Fiat. E aggiunsero, allusivi, che sapevano delle difficoltà di Montanelli con Berlusconi e che sarebbero stati lieti di aiutarlo se fosse stato costretto a fondare un nuovo giornale. Per Romiti il processo per falso in bilancio e finanziamento illecito al psi era questione di vita o di morte: sognava di chiedere la carriera in Mediobanca, ma gli serviva una fedina penale immacolata. Siccome io non mi piegavo alle pressioni, fui addirittura convocato dal capo ufficio stampa della Fiat, che mi avvertì che stavo prendendo una brutta china e dovevo stare attento alla mia carriera… I metodi della Fiat li ho conosciuti bene. Non ti querelavano: ti minacciavano direttamente.
Quali sono stati i più grossi abbagli del pool di Mani Pulite?
Secondo me, nessun abbaglio: hanno acchiappato quelli giusti. L’unica cosa che gli si può rimproverare è non aver previsto quello che poi si è verificato.
Cioè?
Francesco Saverio Borrelli nel 2001 mi disse: non avevamo capito che il consenso, che noi non abbiamo cercato ma è stato fondamentale per consentirci di lavorare liberamente per due anni senza che trasferissero noi o le nostre inchieste, sarebbe scemato quando l’indagine dai piani alti del potere politico e finanziario sarebbe scesa verso quelli più bassi. Infatti scemò quando il Pool iniziò a indagare sui marescialli del distretto militare che prendevano tangente per esonerare i raccomandati dalla naja e su quelli della Guardia di Finanze che si facevano corrompere per addomesticare le verifiche fiscali… Appena si iniziò a toccare la corruzione diffusa, spicciola, “democratica”, l’opinione pubblica iniziò a infastidirsi e Berlusconi e il centrosinistra vi fecero leva per chiudere violentemente la stagione di Mani Pulite con la più bieca delle restaurazioni.

Quali PM stimava di meno e che la grande stampa, invece, sopravvalutava?
Quelli di Milano li ho conosciuti dopo il 1994, perché io seguivo la Mani Pulite torinese.
Sì, però, leggendo anche le carte, si sarà fatta un’idea…?
Sicuramente Tiziana Parenti e Carlo Nordio, ma loro non hanno mai avuto un grande consenso tra i giornali. All’inizio cavalcarono la tigre di Mani Pulite per amore di popolarità. Poi scoprirono che li si notava di più se si mettevano contro il Pool di Milano. Ma, professionalmente, hanno combinato pochino. Nordio ancor oggi è evidentemente invidioso per il successo degli ex colleghi più bravi e più liberi di lui.
Ogni giorno propina ai suoi lettori un editoriale; si è mai chiesto che, forse, scrivere meno, può risultare più interessante? Da dove nasce questa ego-mania? Questa bulimia?
Osservazione acuta… Forse è una malattia quella di scrivere, però è l’unica cosa che mi diverte e non riesco a rinunciarci, spesso nemmeno quando sono in vacanza.
Pensa di essere peggio come giornalista o come direttore?
Come direttore, senza ombra di dubbio. Non ho mai studiato da direttore o immaginato di farlo. Finché ho potuto, ho allontanato l’amaro calice. Per due anni ho pregato Padellaro di rinviare il cambio della guardia. Col carattere che ho, non so gestire gli altri. Per esempio: non riesco a cazziare i miei redattori e, se un pezzo è scritto male, non ho il coraggio di farglielo riscrivere. Il mio condirettore Peter Gomez queste cose le sa fare meglio di me. E poi ho poco tempo, perché scrivo tutti i giorni. La verità è che sono sempre stato troppo solista per dirigere bene un’orchestra.
Nei suoi articoli si scorge, spesso, un certo manicheismo; come mai non le interessano molto le sfumature umane?
Non sempre è così. Sui grandi problemi di coscienza, non ho certezze e ho sempre rifiutato di intrupparmi “di qua o di là” in quel ricattatorio “pensiero binario” che ti costringe a schierarti fra destra e sinistra, garantisti e giustizialisti, vax e no vax, putiniani e atlantisti, populisti e riformisti. Tutte parole e categorie fittizie che non ho mai usato, perché sono fatte apposta per scomunicare e non capire, non approfondire. Sulle persone potenti, invece, molto spesso quello che sembra manicheismo è soltanto nettezza e rifiuto della paraculaggine e del “terzismo”: se un potente è un corrotto o un mafioso, mi importa poco se una volta ha aiutato una vecchietta ad attraversare la strada. Quella sfumatura non mi interessa.
Diciamo che la sua penna, spesso, diventa un’accetta… Quindi risulta difficile, a mio modo di vedere le cose, che lei riesca a scorgere le sfumature.
Ma perché voi vi ricordate solo quando scrivo dei criminali… Quando individuo qualche personaggio con delle sfaccettature interessanti, di certo non mi tiro indietro. Sui grandi problemi, rivendico, invece, l’importanza delle sfumature…
Malcom Pagani mi ha detto: nella mia prima esperienza al Fatto, lavoravo 10-11 ore al giorno, e guadagnavo 1100 euro al mese… Come mai una paga così vergognosa, Marco?
Questo riguarda l’inizio, e quando eravamo tutti al minimo sindacale, perché non sapevamo se saremmo arrivati alla fine del primo mese. Io, da cofondatore e azionista, mi feci assumere con un contratto di Co-co-pro! Tutti davano il Fatto per spacciato… Poi, per fortuna, le cose sono andate bene, e i nostri redattori hanno ottenuto signori stipendi, in molti casi superiori a quelli dei grandi giornali.

Perché, quanto guadagna un vostro redattore?
Non conosco le cifre…
Ma come? Lei è anche editore, dovrebbe saperlo, suvvia…
Io non so niente, se ne occupa l’amministrazione.
Vabbè, saprà, almeno quanto guadagna lei?
Sui seimila euro al mese. Temo di essere fra i direttori meno pagati d’Europa, ma è normale che sia così: siamo editori di noi stessi, non abbiamo cavalieri bianchi o neri alle spalle.
Parlando sempre del Fatto, Pagani mi ha detto che, all’epoca, i suoi preferiti erano Silvia Truzzi, Massari, Beatrice Borromeo e Marco Lillo: sono ancora nella sua lista, o le sue simpatie, ora, sono per altri?
Ha dimenticato molti altri, ma soprattutto sé stesso. Malcom l’ho sempre adorato e, quando l’Espresso gli ha fatto una proposta, ho fatto carte false per trattenerlo. Comunque, all’inizio eravamo in redazione eravamo in dodici. Carlo Freccero ci definiva “quella sporca dozzina”…
Cosa pensa quando un giornalista la molla per un altro giornale? Lo vede come un tradimento?
Mi incazzo, soprattutto se vanno via quelli bravi…
Quali sono i tradimenti, se così possiamo definirli, dei giornalisti che l’hanno più ferito o fatto arrabbiare?
Sicuramente quello di Malcom, e poi Carlo Tecce e Stefano Feltri. Poi però, almeno su Feltri, che avevo nominato mio vicedirettore a meno di 30 anni, ho cambiato idea, leggendo ciò che ha scritto da direttore del Domani di Carlo De Benedetti: l’esatto opposto di ciò che scriveva quando era con noi. E ho pensato: chissà quanto avrà sofferto in tutti quegli anni al Fatto Quotidiano…
Tra i nomi elencati non vedo quello della Lucarelli; anche lei l’abbandonò per andare a scrivere sul Domani di Feltri. L’ha vista come una liberazione, immagino…
Niente affatto. Lei è una delle nostre fuoriclasse, infatti me la sono ripresa alla prima occasione e ora me la tengo stretta.

Nei primi anni avete temuto di non farcela?
Sì, ma grazie ad Antonio Padellaro, il direttore perfetto, e alla nostra sporca dozzina allargata, siamo rimasti in piedi.
Che effetto le ha fatto leggere Furio Colombo sulle pagine del tanto, da lei, criticato giornalone, Repubblica? Lo ha visto come un tradimento?
Abbiamo subito reso pubblico il nostro dissenso sulle pagine del giornale, per un dovere di trasparenza verso i lettori… Furio mi manda un pezzo in cui insulta due nostre firme, Massimo Fini, storico collaboratore del nostro giornale, e Alessandro Orsini, appena arrivato da noi dopo che il Messaggero gli aveva tolto la rubrica di geopolitica per le sue posizioni sulla guerra in Ucraina, la Rai gli aveva stracciato il contratto con CartaBianca e la Luiss aveva preso le distanze da lui. Lo chiamo e gli dico: Furio, come ben sai, non condivido il novanta per cento di quello che scrivi, ma ho sempre pubblicato intatti i tuoi editoriali, perché al Fatto non si censura nessuno. Però c’è un limite, uno solo, oltre al Codice penale: non si insulta sul Fatto un altro collaboratore del Fatto. Quindi critica pure finché vuoi ciò che scrivono Fini e Orsini, argomentando il tuo dissenso, ma senza insulti. Così Fini e Orsini, se vorranno, ti risponderanno. Perché al Fatto c’è spazio per tutte le opinioni. Furio si irrigidisce e mi risponde categorico: “Io non discuto con Orsini” e giù un’altra raffica di calunnie indimostrate e indimostrabili. “Io non voglio nessun dibattito, Orsini non deve scrivere sul nostro giornale, altrimenti me ne vado. Scegli: o lui o me”. Resto basito e ovviamente rifiuto di censurare Orsini, che ho chiamato al fatto proprio perché tutti gli altri lo censuravano. Colombo, che aveva già pronto il contratto con repubblica, se ne va lo stesso giorno. E rilascia anche un’intervista molto spiacevole e menzognera a MicroMega…
Perché, cosa disse di così?
Che l’avevamo censurato, mentre era lui che pretendeva che io cacciassi Orsini.
Oggi che rapporto avete?
Non l’ho più sentito.
È più attratto dalle lusinghe femminili o da quelle dei giornalisti?
Non ricevo lusinghe da colleghi. Quindi da quelle femminili.
Un tempo, quando era inviso e per nulla amato dalla tivù generalista, lei chiamava Giovanni Floris il “Vespino de Sinistra”: come mai, ora, questo “innamoramento televisivo”? Eppure, i contenuti di Floris sono sempre gli stessi…
Il talk come lo conosciamo oggi – tipo Porta a Porta, Dimartedì e tutti gli altri – a me non è mai piaciuto perché si basa su un equivoco pericoloso: sulla par condicio e il contraddittorio. Che sono doverosi per dare spazi proporzionati ai partiti e agli esponenti politici, specialmente in campagna elettorale, ma non possono riguardare i giornalisti. Almeno quando raccontano i fatti. Floris, che quando lo criticai conduceva Ballarò su Rai3, aveva adottato, e adotta tuttora, quello schema caro a Bruno Vespa, che ora è diventato dominante. Io preferivo il modello Santoro: quando lavoravo con Michele, avevo il mio spazio per raccontare un fatto nudo e crudo, senza i soliti disturbatori che interrompono raccontando balle o contrapponendo opinioni. È quella la malintesa par condicio che fa credere al pubblico che non esistano fatti, ma solo opinioni. Io, se esprimo un’opinione, mi confronto volentieri con altri che ne esprimono altre. Ma, se racconto che Andreotti e Berlusconi erano colpevoli ma si sono salvati per prescrizione e produco le sentenze, non posso essere messo sullo stesso piano di un “collega” che dice che sono stati assolti e dunque erano innocenti e perseguitati.

Scusa, Marco, visto che non è cambiato nulla, perché ci va, allora…? Scorgo una palese incoerenza…
Perché oggi tutti i talk sono così. E comunque con Floris faccio solo interviste faccia a faccia: lui domanda e io rispondo, senza il solito coretto cacofonico di sottofondo che interrompe e intorbida le acque.
Le piace Floris come giornalista?
Fermo restando che non amo il format, è uno dei più bravi: pronto, rapido, sveglissimo.
Ha sempre apprezzato giornalisti pronti alla battaglia, un po’ impavidi… A Sabelli Fioretti ha detto, una volta: “Gad Lerner, ha tante qualità, ma non il coraggio”. Come mai, allora, da qualche tempo, lo ha arruolato? Non mi sembrate anime affini, anzi…
Quando lo dissi, è perché lo trovavo troppo prudente su Berlusconi. Si era messo in testa che si dovesse concedergli un’amnistia in cambio del ritiro dalla politica. E io ribattevo: col cavolo che Berlusconi si ritira dalla politica! Quello si prende l’amnistia e poi resta lì fino alla morte. Infatti, è morto da senatore. Poi, con Gad, abbiamo avuto sempre una visione opposta sull’omicidio Calabresi: io ho letto tutte le sentenze e mi sono arciconvinto che sia opera di Sofri e degli altri tre di Lotta Continua, lui invece lo nega.
Perché, allora, lo hai voluto fortemente? Aveva bisogno, al Fatto, di una stecca nel coro, per dirla con Montanelli?
Perché, quando vedo qualcuno che non può più scrivere liberamente sul suo giornale, vivo il Fatto non come la mia casa o la mia caserma, ma come il giornale aperto, dove ognuno può scrivere quello che cazzo vuole. Sapevo che nella nuova Repubblica degli Elkann e di Molinari si trovava a disagio e mi è venuto spontaneo fargli sapere che le porte del Fatto sono sempre aperte per chiunque abbia qualcosa di interessante e autorevole da dire e non sa più dove dirlo. Come accadde a Padellaro, a Gomez, a Lillo e a me nel 2009 quando fondammo il Fatto.
Annamaria Bernardini de Pace, proprio recentemente, in un nostro incontro, parlando di lei, mi ha detto: “Montanelli mi diceva che era molto bravo, ma che doveva essere seguito, che aveva bisogno di un tutore per governargli la troppa intelligenza”. Cosa combinava al Giornale?
È un grande complimento, che mi crea anche imbarazzo…
Sì, ma cosa combinava?
E che ne so… Forse rompevo i coglioni, come sempre… Lui mi chiamava “la mia mosca tsè-tsè”.
Quando Montanelli morì, nel 2001, lessi decine di articoli tutti tesi a idolatrarlo e incensarlo; negli anni in cui ha lavorato a stretto contatto con lui, cosa non sopportava di Indro? O cosa non le piaceva?
Ma io sono un piccolo fan: mi piaceva tutto di lui. Anche se avesse avuto dei difetti, ed è tutto da dimostrare, non li avrei notati.

Come mai fallì miseramente l’esperienza della Voce? Montanelli pensava di essere più forte anche dei soldi? O scarseggiavano le idee, le sue in primis…
Fallì per modo di dire: ci chiusero quando vendevamo 70mila copie reali in edicola. Oggi le vende solo il Corriere. A parte i costi, ci fu un sabotaggio sistematico del mondo finanziario, a che sul collocamento dell’azionariato popolare, per compiacere Berlusconi. Che vedeva come il fumo negli occhi l’unico giornale antiberlusconiano non da sinistra, ma dalle posizioni liberali che lui fingeva di incarnare. Ho raccontato tutto in “Montanelli e il Cavaliere”.
Non pensa che il vero dominus del Giornale, per spessore internazionale, scrittura e cultura, fosse Enzo Bettiza?
Quando arrivai al Giornale, Bettiza non c’era già più, perché aveva litigato con Montanelli su Craxi: credo volesse portare il Giornale su posizioni filosocialiste, che erano anche quelle preferite dall’editore Silvio Berlusconi…
Se Montanelli avesse letto sull’Unità i suoi articoli, non pensa che si sarebbe vergognato per lei…? Che c’entrava, lei, conservatore liberale, con Gramsci?
Verissimo! Ma, da quando Berlusconi entrò in politica, c’erano “comunisti” dappertutto: anche fra gli anticomunisti come me. Pure Montanelli, appena osò mettersi contro il Cavaliere, fu etichettato come comunista. Detto questo, quando ci arrivai io, nel 2002, l’Unità non era più il giornale di partito del Pci-Pds-Ds che tutti conoscevano; era un quotidiano indipendente, libero, corsaro, per certi versi simile al Fatto. Infatti, lo dirigevano Colombo e Padellaro, che non avevano mai votato Pci in vita loro.
Quali politici dell’allora Ds telefonavano ai vari Padellaro e Colombo per lamentarsi dei suoi articoli?
Piero Fassino faceva delle sfuriate telefoniche pazzesche, accusando Furio e Antonio di farmi scrivere; Cuperlo scrisse una lettera in cui diceva che la peggiore notizia per l’Unità era stata l’arrivo di Travaglio. Un giorno sì e l’altro pure chiedevano la mia cacciata perché non facevo sconti neppure a loro… Ecco, tornando alla sua prima domanda, forse il più grande dolore l’ho inferto ai vertici dei Ds con la mia firma sul giornale che era stato il loro e che avevano fatto fallire, mentre era rinato con noi e senza di loro. Una delle ragioni per cui fecero fuori prima Colombo e poi Padellaro era proprio il fatto che mi facessero scrivere.
Per anni, con Padellaro, avete fatto staffetta: quali, e quante, toppe avete preso insieme?
Toppe? Non penso…
Buchi?
Buchi tantissimi: devo dirle, però, che non ho mai avuto l’ossessione dei buchi. Che, fra l’altro, notiamo solo noi giornalisti: i lettori se ne infischiano. I buchi si prendono e si danno. E noi sul Fatto ne abbiamo dati molti più di quanti ne abbiamo presi.
Facciamo così, allora: quale scoop ha invidiato ad altri quotidiani e che avrebbe voluto leggere sul suo giornale?
Forse quello di Fiorenza Sarzanini sullo scandalo Berlusconi-D’Addario-Tarantini e quello di Conchita Sannino su Berlusconi al diciottesimo compleanno di Noemi Letizia a Casoria.

Cosa non sopporta di Padellaro?
Niente: oltre al miglior direttore che ho avuto, insieme ad Agasso, a Daniele Vimercati e a Claudio Rinaldi (Montanelli il direttore lo faceva poco e malvolentieri), è anche il compagno di cazzeggio ideale: molti dei suoi e dei miei articoli più divertenti nascono dalle nostre telefonate piene di battute e di risate, anche molto scorrette, che spero nessuno intercetti mai…
Cosa le fa perdere le staffe nel suo giornale?
Quando scriviamo qualcosa contro qualcuno e non lo contattiamo per dargli il diritto di replica.
Quanti soldi ha sborsato, finora, e di tasca sua, per querele?
Parecchi: di tasca mia, direi più di 200 mila euro. E mai per cose false: a parte un paio di casi di omonimia, sempre per battute che il giudice non ha capito o per epiteti che ha ritenuto non “continenti”. È una vergogna che nel 2023 un giornalista debba preoccuparsi anche del metro di valutazione della “continenza” usato da un giudice che nemmeno conosce.
Quali articoli, ripensandoci, non riscriverebbe e di cui si è vergognato come un ladro?
Nessuno. Se scrivi tutti i giorni, anche se fai di tutto per essere preciso, ti capita di sbagliare, ma pentirti non serve a niente: se sei onesto, rettifichi subito l’errore l’indomani, prima ancora che l’interessato te lo chieda.
Sovente, nelle mie interviste, il suo nome spunta come un fungo. Filippo Facci ha così risposto ad una mia provocazione: “Non so se lo detesto. Ogni volta che l’ho incontrato ho sentito un moto spontaneo di simpatia. C’è una fisiologica e opposta visione sulla giustizia e su Mani pulite, ma in realtà, a pensarci, non abbiamo mai recuperato dopo che una volta aveva sfottuto vari personaggi per i loro difetti fisici, tipo «donna cannone, donna barbuta» a Giuliano Ferrara, volgarmente «accucciata» parlando di Ritanna Armeni, «la vocina del padrone» a Mario Giordano, roba così. Di me si è sempre inventato che mi tingevo i capelli, meglio, che avevo le mèche. In queste cose è un po’ un fascistello da oratorio”. Come mai sente, spesso, nei suoi articoli la necessità di offendere, deridere…?
Non lo so… Sono stato molto amico di Dario Fo, e ho visto le sue commedie “Il Fanfani rapito” e “l’anomalo bicefalo”: interpretava Fanfani e Berlusconi camminando sulle ginocchia perché i due protagonisti erano bassi. Non credo che né l’uno né l’altro si siano mai offesi per così poco. Se ironizzi sui tratti fisici di alcuni personaggi, non è body shaming: è satira. E la satira e la caricatura, da Aristofane a Forattini, dal Male a Cuore, hanno sempre insistito sulle caratteristiche fisiche (altra cosa sono le malattie) dei potenti. Se Giuliano Ferrara scherza sulla sua mole, firmandosi “Elefantino”, perché non possono farlo gli altri?
Ha mai pensato di assumere Facci al Fatto Quotidiano?
No.
Perché?
Non è il mio genere.

Se avesse un po’ di soldi da investire, quali penne ruberebbe ai tre quotidiani di destra – Il Giornale, la Verità e Libero?
Mario Giordano e Marcello Veneziani dalla Verità. Dal Giornale Stenio Solinas e Vittorio Feltri, ma è troppo attaccato ai soldi e non me lo posso permettere. Da Libero, al momento, nessuno.
Giordano Bruno Guerri?
Dipende: a volte lo prenderei, altre volte lo lascerei dov’è.
Nei colleghi voltagabbana hai incluso anche Feltri. Sempre a Sabelli hai detto: “Vittorio Feltri, un caso clamoroso. Nel ’92 e ’93 scriveva cose fortissime. Quando si suicidò Moroni scrisse che al posto suo si sarebbe suicidato due volte. Oggi ripete a pappagallo qualsiasi attacco ai magistrati”. Non pensa che cambiare idea sia sinonimo di intelligenza? Alla fine, in tutti questi anni, i magistrati, tanti, hanno dato dimostrazione di grande mediocrità e attaccamento al potere…
Cambiare idea è sinonimo d’intelligenza quando non ti conviene; quando ti conviene cambiare idea, autorizzi il sospetto di non averlo fatto per intelligenza, ma per convenienza. Vittorio era pro Mani Pulite all’indipendente; poi Berlusconi lo chiamò al Giornale al posto di Montanelli e, appena partì lancia in resta contro il Pool, Vittorio lo seguì. Il sospetto ti viene…
Beh, Feltri sembra uno allergico agli ordini… Ha fatto sempre giornali di testa sua… Non lo vedo prono ad accettare ordini dai padroni… O no?
Sì, lui dice addirittura che era berlusconiano prima che lo diventasse Berlusconi. Può darsi, ma su Mani Pulite non la racconta giusta.
Chi sono, oggi, i voltagabbana tra i pennivendoli?
Sono troppi, i voltagabbana, Francesco!
Due nomi, su…
Faccio fatica, davvero… Sono un esercito, una legione… Quando Renzi era al governo, erano tutti renziani. La Boschi era descritta come la Madonna… Tutti pensavano, erroneamente, che Renzi sarebbe durato per vent’anni. Quando poi s’è suicidato col referendum del 2016, erano tutti disperati perché non sapevano quali culi leccare. Francesco Merlo, che è uno di quelli che detesto di più, scrisse delle cose su Renzi da vergognarsi.
Cioè, cosa scrisse?
Quello che scrive sempre sul potente di turno. È tutto nel mio libro “Slurp”, perché nulla rimanga impunito.

Cosa successe a Repubblica; come mai i vostri rapporti si interruppero?
Mi sono trovato malissimo, si vede che non eravamo fatti l’una per l’altro. Mi chiamò Ezio Mauro e gliene sono grato, ma speravo che il suo arrivo al posto di Scalfari, avrebbe fatto di Repubblica un giornale più libero e aperto, non più la vecchia chiesa “de sinistra” con i suoi dogmi e le sue scomuniche. Invece, in tutti i giornali che ho girato, non ho mai trovato nulla di più chiuso e censorio di quell’ambiente lì. In quei tre anni e mezzo, relegato nelle pagine della cronaca torinese, ho vissuto malissimo. Ma son cose che capitano e me ne sono fatto una ragione: appena ho potuto, nel 2002, sono scappato.
Cosa non le piaceva di Ezio Mauro?
Lui è un ottimo direttore, ma è proprio l’ambiente, direi addirittura i muri, che trasudano conformismo, ipocrisia, doppiopesismo e censura “de sinistra” Se non sei “dei loro” e non dai prova di “affidabilità”, sei trasparente. Non esisti proprio.
Cosa invidiava a Giuseppe D’Avanzo, il più grande cronista di giudiziaria?
Il suo talento, la sua capacità di analizzare i fatti e di arrivare sempre nel momento giusto col pezzo giusto e l’idea giusta. Memorabili i suoi articoli che smontarono le bufale berlusconiane su Di Pietro tangentaro e sulla Telekom Serbia. Indimenticabile l’intervista a Gherardo Colombo sulla Bicamerale, che descriveva alla perfezione il sistema di potere in Italia: se sei ricattabile, hai un futuro; se non sei ricattabile, sei spacciato. Quell’intervista avrei voluto farla io.
Poi cosa successe tra voi?
Nel 2008 andai in tv da Fabio Fazio a presentare un libro e parlai dei rapporti del neopresidente del Senato Renato Schifani con dei soggetti poi condannati per mafia: lui stesso, la seconda carica dello Stato, era in quel momento indagato per concorso esterno (e solo in seguito sarebbe stato archiviato). D’Avanzo mi sparò contro su Repubblica, di cui ero ancora collaboratore, denunciando un non meglio precisato “metodo Travaglio” in base al quale avrei potuto essere accusato di essere andato in vacanza qualche anno prima a spese di un imprenditore mafioso, mai visto né conosciuto. Dovetti faticare un po’ per trovare, tramite la banca, tutta la documentazione relativa ai pagamenti, in parte con assegno in parte col bancomat, dimostrare che le ferie me l’ero pagate io e smentire quella incredibile calunnia. A distanza di anni, non ho mai capito il senso di quell’attacco. Tempo dopo ci scambiammo alcune mail ripromettendoci di chiarirci. Poi purtroppo morì.
Chi le passò la notizia del suo scoop sull’inchiesta “Calciopoli”?
Eh, ti piacerebbe! I giornalisti non rivelano mai le proprie fonti.
Come Montanelli, anche lei ha passato la vita a “turarsi il naso” a furia di votare Dc. Poi, passano gli anni, e si ritrova Conte a Palazzo Chigi e continua a “turarsi il naso”. O mi sbaglio?
Non proprio. Nella prima Repubblica, come Montanelli, votai una volta Dc, e per il resto Pli o Pri. Nella seconda mi sono turato il naso due volte: nel ’94 quando ho votato Segni e Martinazzoli per disperazione, visto che le alternative erano Berlusconi e il Pds; e nel 1996, quando votai alla Camera Ulivo e al Senato – non potendo votare il fratello di De Benedetti – scelsi la Lega, grato a Bossi per aver rovesciato il primo governo Berlusconi. Successivamente, il naso non me lo sono più turato. Sono riuscito a non votare né centrosinistra né centrodestra grazie a Di Pietro e poi ai 5Stelle.

Francesco Merlo, su Repubblica, ha così scritto di Conte: “È posticcio qualunque sia la parte che recita. È un attore che, per risultare convincente, torce e strizza la maschera che via via indossa, mettendo a nudo, nell’esagerazione, la verità di un cinismo senza principi”. Non trova che nella descrizione di Merlo ci sia un fondo di verità?
Zero. Per come lo conosco io, Conte è esattamente l’opposto. Se fosse quello che descrive Merlo, sarebbe ancora presidente del Consiglio. È caduto proprio per la sua intransigenza assoluta nel respingere le lusinghe e le avance di tutte le lobby, che poi è la cosa che più mi piace di lui. Perciò l’establishment l’ha rovesciato due volte, usando come piedi di porco prima Salvini e poi Renzi.
Beh, per governare prima con la Lega e, poi, con il Pd, ha dovuto essere camaleontico, furbo…
Questa è una minchiata assoluta: è la legge elettorale Rosatellum, voluta da Renzi e votata anche da Lega e FI nel 2017, che impone di decidere le alleanze di governo dopo le elezioni, a meno che una delle coalizioni non abbia la maggioranza assoluta. Nel 2018 nessuna aveva il 50%, Di Maio arrivò primo col 33 e provò col Pd, ma Renzi lo rimbalzò, così fece il contratto di governo con Salvini e scelse Conte come premier di area, ma non iscritto ai 5 Stelle. Un anno dopo, con la crisi del Papeete scatenata da Salvini, Mattarella non sciolse le Camere perché c’era una maggioranza alternativa: Renzi aveva cambiato idea e proposto il Conte 2, con 5Stelle, Pd e Leu. Se Conte è un trasformista per aver realizzato il programma dei 5Stelle prima con la Lega e poi con il Pd, Draghi che non ha combinato nulla governando con 5Stelle, FI, Lega, Pd e Leu che cos’è: il re dei camaleonti? Ah, le do anche una notizia: mi capita spesso di rimpiangere il governo Conte1, almeno finché Salvini non diede di matto sui migranti e non si consegnò mani e piedi all’establishment.
Addirittura?
È stato il più innovativo dalla Seconda Repubblica… Nei primi 10 mesi ha fatto cose inimmaginabili: Reddito di cittadinanza, Quota 100, Spazzacorrotti, blocca-prescrizione, decreto Dignità contro il precariato, taglio dei vitalizi e dei parlamentari, e potrei continuare… Il tutto in meno di un anno: altro che Draghi o Meloni.
Cosa ha pensato quando i Cinque Stelle hanno dato le chiavi del governo a Conte: e questo chi è, adesso? Sia sincero!
Mi sono informato su chi fosse e poi l’ho giudicato dai suoi atti, senza pregiudizi positivi o negativi, come ho sempre fatto con tutti i presidenti del Consiglio: criticandolo quando pensavo che sbagliasse ed elogiandolo quando pensavo che fosse nel giusto.
Quali sono state, se ci pensa con il distacco del tempo, le battaglie politico-ideologiche che il Fatto ha sbagliato?
Nessuna, anche perché non abbiamo ideologie da difendere: abbiamo le nostre idee, plaudiamo chi le realizza e contestiamo chi le contrasta.

In cosa, secondo lei, il suo giornale può ancora migliorare? Di lacune ne vedo tante…
Si può e si deve sempre migliorare su tutto, a partire dal linguaggio. Ho scritto un decalogo che ho prontamente consegnato ai redattori: una black list delle espressioni e parole da non utilizzare negli articoli e nei titoli, per sfuggire a quella sbobba gergale orrenda che si chiama “giornalese”.
Tipo?
“Caos migranti”, “Bufera su Salvini”, “Gelo del Quirinale”, “Ira di Mattarella”, “Autunno caldo”, oppure i titoli che cominciano con il “se”… Ogni tanto, qualcuno dei miei ci prova ancora e lo fulmino.
Come mai Aldo Busi non collabora con voi?
Aldo, per me, è un dolore… È un genio, ma è molto umorale. Ogni tanto, se non la pensi come lui, ti scomunica, ti toglie il saluto.
Vabbè, ma, in soldoni, cosa è successo?
Quando morì Lucio Dalla, di cui ero amico, scrissi un pezzo affettuoso per ricordarlo: tra l’altro, se ne andò proprio mentre stava per scrivere il suo primo blog per il Fatto… Aldo furibondo mi sparò addosso: non dovevo permettermi di elogiare Lucio, a suo dire colpevole di non aver fatto coming-out sulla sua omosessualità. Ma saranno stati cazzi suoi o no? Ognuno è libero di dire se ama gli uomini, le donne, o entrambi, o non dire nulla, o sbaglio? Boh.
Da quanti anni non vi parlate?
Diversi anni, ormai. Alla fine, Aldo cercava la rissa, sapendo di ferirmi mi scrisse anche che Montanelli era un pedofilo. Montanelli!
Chi vedrebbe come suo erede al giornale: ci ha mai pensato?
Di soggetti simili a me non ne vedo, ma solo perché sono troppo strano io. Ed è meglio così: i cloni sono noiosi. Invece colleghi bravi che potrebbero dirigere il Fatto ne vedo tanti.
Per quanto tempo vuole stare ancora in sella e scudisciare con la sua penna?
In realtà non vorrei dirigerlo neanche adesso. Ma ho un forte senso del dovere e alla fine la funzione crea l’organo. Per ora continuo e non faccio mai programmi: preferisco vivere alla giornata. L’unico programma che avevo fatto che era quello di non diventare mai direttore, ed è fallito miseramente… Quindi è inutile farne altri: tanto poi le cose vanno sempre come vogliono loro.
