Ginevra Bompiani

Lo dico subito, per sgomberare il campo da ogni dubbio: la confessione – sì, perché di questo si tratta – con Ginevra Bompiani non è stata una passeggiata, né tantomeno un incontro dinanzi a una tazza di tè con dei biscottini di pasta frolla; piuttosto un match tra pugili desiderosi di darsele di santa ragione, senza mai tirarsi indietro, anzi. Lontani anni luce, io e lei, ma, allo stesso tempo, curiosi di scoprire e criticare le diversità l’uno dell’altro. L’idea di incontrarla nasce quando, smarrita la sbornia natalizia, sui banchi, ogniqualvolta entravo in libreria, il mio occhio, sovente, cadeva su un memoir. Dopo qualche titubanza, legata probabilmente al titolo – forse poco ficcante ai miei occhi – decisi comunque di acquistarlo. E così, dopo essermelo delibato voracemente, nelle settimane successive alla lettura di Penultima Illusione, cresceva, dentro di me, la voglia, oltreché la curiosità, di incontrare vis-à-vis, Ginevra Bompiani, una delle ultime signore – milanese, come ha tenuto a ribadirmi – dell’editoria italiana nonché accademica di lungo corso.

Il libro – sugoso, snob e ricco di aneddoti – mi aveva suscitato una voglia matta di provocare. Il mio intento era lapalissiano: provare a tirar fuori qualcosa di non detto, scorticare, litigare, fomentare, in modo tale da dipingere, alla fine dei conti, un quadro il più verosimile possibile. Da una vita così piena, almeno così mi sembrava, troppe cose volevo comprendere; e troppe, tante, cose non mi convincevano. Dopo un primo, rapido contatto prima per mail e, poi, per telefono, ho avuto la possibilità di conoscere direttamente Ginevra de visu. Mi ha accolto nella sua casa, dalle parti del Ghetto, in un palazzo elegante e silenzioso. Dal salone, mentre chiacchieravamo, era possibile ammirare uno splendido panorama, con la Sinagoga, in tutta la sua bellezza, a farla da padrone. Pur mostrandosi subito disponibile e curiosa, debbo confessare che la Nostra mi ha accolto con una punta – acuminatissima, oserei dire – di diffidenza e, probabilmente, di pregiudizio. Niente di più sbagliato ai miei occhi. Ma tant’è.

L’eterodossia intellettuale di Dissipatio e del sottoscritto, molto lontana dai suoi canoni culturali e riferimenti politici hanno, almeno nella prima parte di questa lunghissima confessione, creato una sorta di muro, probabilmente inevitabile. Ma una volta sciolte le briglie, legate al suo insito snobismo e alle numerose divergenze venute fuori come un pallone incapace di stare sott’acqua, abbiamo percorso insieme le tappe fondamentali della sua famiglia, le passioni, gli incontri fondamentali e, perché no?, le sue palesi idiosincrasie. È stato strano – perché raramente capita – discettare ancora di Sinistra e Destra, soprattutto quando s’infilano nella vita e nei libri e nei ricordi.  Ma, ora, aggiungere altro, sarebbe pleonastico. Se siete arrivati fin qui, allora sedetevi sua comoda poltrona, e continuate a leggere: di certo non vi annoierete. O, almeno, così spero…

F.M /  francesco.melchionda@tiscali.it

Valentino Bompiani

​​​​​​​-Ginevra Bompiani, voglio cominciare questa Confessione dal suo ultimo libro, Penultima Illusione. Per lei, l’illusione ha un significato positivo? È una romantica fanatica, incapace di vedere la realtà per come si presenta?

Lei ha letto il libro?

Certo.

E allora che senso ha questa domanda? Lo spiego bene nel libro.

Lo spieghi, allora…

Penso che le illusioni siano il motore dell’esistenza, e che senza un’illusione tenace non si possa fare una buona vita. L’illusione non è necessariamente un inganno, ma una spinta felice senza troppa fiducia.

Quando ha scritto quest’ultimo libro, si è mai chiesta se la sua vita potesse veramente interessare a qualcuno?

No, perché la vita in sé non è interessante, quello che può interessare è il racconto della vita. Il fatto di raccontarla trasforma l’esistenza in una vita. 

Perché ha deciso di pubblicare per Feltrinelli?

Perché ho pensato che avesse la  volontà e la forza di sostenerlo. E così sta facendo. Ho pubblicato con loro anche il libro precedente L’altra metà di Dio.

Quanta vanità c’è nella sua scrittura?

Ginevra Bompiani, George Steiner e Umberto Eco all’Università di Siena

Credo poca perché, in generale, credo di averne poca io…

Suo padre Valentino è stato uno degli editori più importanti del Novecento italiano. Recentemente ha detto che il vostro rapporto era quasi paritario: si spieghi meglio…

Se ho detto veramente così, sono stata inesatta. Il nostro rapporto non era per niente paritario! Mio padre era molto autoritario e le sue due figlie ne avevano paura. Però, all’interno del nostro rapporto, c’erano momenti di conversazione in cui mi sembrava di raggiungere una sorta di parità.  Ma erano oasi…

Se non erro, fonda la casa editrice nel 1929, negli anni mussoliniani… Che legame ebbe con il regime, suo padre? Simpatizzò anche lui per convenienza?

Non lo so: non c’ero.

Non gliel’ha mai chiesto? Non l’ha mai incuriosita?

So che ha molto lottato per i suoi libri; quasi ogni settimana doveva andare a Roma a battersi con la censura di regime per far sì che i suoi libri potessero uscire. Come poteva essere dalla parte di quel regime? Un giorno gli chiesi perché avesse pubblicato Mein Kampf. Lui mi rispose: “volevi che non si conoscesse un libro del genere?!” Lei crede che se Osama Bin Laden avesse scritto un libro, qualche editore avrebbe rifiutato di pubblicarlo? Io non so se avrei avuto il coraggio di farlo. Forse no. Mio padre era un uomo molto coraggioso.

Lei lo è?

Io sono una persona molto paurosa, che fa le cose di cui ha paura. In un certo senso, quindi, penso di essere coraggiosa.

È anche fanatica?

No, per niente. Credo al buon senso.

Quali sono stati gli anni più bui della Bompiani, intesa come casa editrice?

Gli anni della guerra, ovviamente. Quando mio padre fece il Dizionario delle opere dei personaggi per salvare la cultura dalla catastrofe, i tedeschi entrarono nella tipografia e si presero il piombo. Questo, come può ben immaginare, avrebbe significato la fine del Dizionario e della casa editrice. Ma per fortuna, a capo di questo manipolo di tedeschi, c’era un giovane studente che capì di che cosa si trattava e lo fece riportare indietro. 

Le posso dire una cosa?

Certo.

Tutte queste domande mi sembrano di destra!

Ah sì? E perché, ora ci sono domande di destra e sinistra? Comunque, non penso, sa…

Ci sono eccome! Quello che intendo per ‘domande di destra’ sono domande a cui non interessa la risposta e nemmeno interessa chi la dà: il loro scopo è più che altro stuzzicare e mettere in difficoltà la persona che ne è il bersaglio.

E ricorda, invece, quali sono stati gli anni più difficili della sua vita?

L’infanzia, direi, perché prima  c’era la guerra, poi gli anni del collegio e in seguito ero spesso malata. Ho cominciato a star bene solo dopo la fine del liceo.

Se avesse potuto, quali autori avrebbe “rubato” alle altre case editrici?

Non l’ho mai fatto perché ho sempre considerato gli editori come amici potenziali, anche perché ricordo che c’era amicizia fra mio padre e gli editori dell’epoca. Da editore di una piccola casa editrice indipendente, ho sempre cercato le alleanze e non la rivalità o la concorrenza. Credo di essere stata leale e gli altri lo sono stati con me.

Ha preferito, quindi, la lealtà alla concorrenza?

Diciamo che mi piace la lealtà.

E lei pensa davvero che nell’editoria ci sia molta lealtà?

Beh, tra gli editori indipendenti, abbastanza, sì. Nessun editore mi ha mai portato via nulla.

Qual è stato, secondo lei, il più grande editore italiano?

Ognuno è stato grande a modo suo. Bompiani, Einaudi, Mondadori, Feltrinelli e, molto tempo dopo, Adelphi, per dirne alcuni, hanno inciso parecchio nella vita culturale del nostro Paese. Difficile fare una classifica anche perché ci sono tanti modi di fare editoria.

Umberto Eco è stata una figura centrale della casa editrice e della sua vita. A causa del suo immenso sapere, così ha detto recentemente, è fuggita a Parigi perché, al suo cospetto, si sentiva inadeguata. Non pensa di aver un po’ esagerato?

Detta così, sicuramente. Avevo delle ragioni molto personali per andarmene a Parigi, ma è stata comunque una considerazione che ho fatto. Lavorando in casa editrice, con l’illusione di prendere un giorno il posto di mio padre, era normale che mi chiedessi: come farò a stare sopra la testa di una persona come Eco, ignorante come sono?

Pensava davvero di essere ignorante?

Certo che lo ero: avevo solo terminato gli studi liceali, all’epoca, non potevo non essere ignorante.

Pietro Citati ha più volte scritto, e detto, che Eco è un non scrittore e che i suoi romanzi, a partire dal Nome della Rosa, sono libri orrendi. Probabilmente non condividerà il suo pensiero. Ma non pensa, al contempo, che nell’analisi di Citati ci sia un fondo di verità? In fin dei conti, essere intellettuali non significa, al contempo, essere grandi romanzieri…

C’entra con me questa domanda? Questo è quello che pensava Citati… Io credo che Eco sia un grande raccontatore di storie.

Cosa va a fare a Parigi? Conserva qualche ricordo?

Di ricordi ne ho tantissimi: ho vissuto otto anni a Parigi.

Ne citi alcuni…

Mi sono trovata a Parigi quando era in corso la guerra d’Algeria, ho vissuto una parte del Sessantotto. E poi ci sono le innumerevoli e bellissime amicizie. Parigi è stata la mia seconda educazione.

Ha fatto qualche incontro interessante? E se sì, con chi?

Moltissimi. Il più emozionante è stato con Gilles Deleuze, l’essere più straordinario, forse, che ho conosciuto nella mia vita… Ma è stato molto importante anche José Bergamin, scrittore, drammaturgo e poeta spagnolo. E tanti amici cari..

Ginevra Bompiani e Josè Bergamin nel Paese Basco (1983) 

Cosa le ha lasciato Deleuze?

Tutto, ogni sillaba… Ogni sua parola mi attira come una verità impensata. Naturalmente, ho sempre fatto un po’ di fatica a leggerlo…

Perché?

Perché non sono una filosofa… Lei lo ha letto?

Poco, non mi affascina. Preferisco Heidegger…

Immagino.

Per lei, quindi, Deleuze è stato il più grande filosofo del Novecento?

Per me, sì.

Anche più di Heidegger?

Sì. Comunque Heidegger, sebbene lo abbia incontrato, l’ho letto pochissimo.

Si è tanto favoleggiato del famoso appartamento di via Sirtori 3. Cosa succedeva? Chi vi entrava?

Era una delle tre comuni di Milano, e l’ho conosciuta grazie a due ragazze, le mie due fisioterapiste, una delle quali era la figlia di Lelio Basso. C’erano Eco, Filippini, Vergani, Fleur Jaeggy, Daghini e il nume tutelare: Enzo Paci..

Cosa facevate?

Chiacchieravamo, non ballavamo!

Nulla di eclatante e rivoluzionario, quindi… 

Noi eravamo i visitatori. Il padrone di casa era Giairo Daghini, e lui era abbastanza rivoluzionario! Penso che la Comune di Via Sirtori avesse una duplice vocazione, filosofica e politica.

Chi era Calvino? Un grande scopritore di talenti o, piuttosto, un grande scrittore?

Me lo chiede davvero? Era un grandissimo scrittore, e anche un bravo editore. 

Che rapporti avevate?

Di amicizia. Non a due, ma a quattro. Con sua moglie Chichita e Giorgio Agamben.

Manganelli?

Era simpaticamente cupo, divertente e spiritoso. Sempre inaspettato.

Quale talento riconosceva a Manganelli?

Era un fantastico scrittore, con una lingua unica, inventiva e barocca. Tra tutti i suoi libri, il primo che mi ha conquistata è stato Centuria.

Paolo Volponi?

Adorabile. Anche lui un grande scrittore. Volponi, a differenza della sua intelligentissima e sofisticatissima moglie Giovina, che ho amato tanto, era un uomo semplice e diretto. Amici carissimi devastati dalla tragica morte del figlio.

Da editrice e scrittrice, le chiedo, così, a bruciapelo: come se ne esce dalla ridicolaggine dei premi letterari? Tutte queste camarille, clan, alla fine, non pensa danneggino la qualità dei libri?

Mi pare il contrario: sono i brutti libri che danneggiano i premi. Mi pare giusto premiare i bei libri. Non ci vedo nulla di male. Se lei, ad esempio, va a vedere i vincitori dello Strega negli anni Settanta, beh, la qualità degli scrittori era altissima… Pensi a Elsa Morante.

Quali sono stati i suoi più grandi rimpianti da editrice?

Continui … Però, poi penso che una casa editrice sia fatta di tutte le scelte sbagliate che ha preso… Una personalità è fatta più dai difetti che dalle virtù.

Perché ha deciso di mollare nottetempo?

Perché ero stanca e perché il mio lavoro non mi pareva più tanto creativo. Man mano che passavano gli anni c’era, anche, il timore di non farcela economicamente. Temevo che se non ce l’avessi fatta, le ragazze che componevano la squadra nottetempo si sarebbero trovate in difficoltà. E allora ho pensato che fosse meglio cedere il posto a qualcuno più giovane.

Parla di ragazze, quindi nella casa editrice non c’erano uomini? Non si fidava del talento maschile?

Era una bellissima squadra di giovani donne; per quasi tutte era la prima esperienza editoriale, si sono formate a nottetempo. Che fossero donne è stato probabilmente un caso, ma un caso frequente nella piccola editoria indipendente. In genere i maschi puntano al ‘grande’, al ‘potere’, al ‘successo’.. Noi puntavamo ad altre cose.

Quanto hanno contato, secondo la sua prospettiva, i salotti letterari in Italia? Amava aderirvi?

Non li ho mai conosciuti né frequentati. 

Pensa che abbiano contato qualcosa, soprattutto negli anni d’oro dell’editoria italiana?

Non credo. C’erano delle bellissime feste a casa Feltrinelli o, prima di Natale, in casa Eco, ma non penso che in Italia sia mai esistito un vero salotto letterario. Forse a Parigi, in un’altra epoca…

Ha davvero contato, perlomeno in Italia, il ruolo del critico letterario, inondato a casa e nelle redazioni dei giornali, da centinaia di libri da recensire pur non avendoli magari mai letti?

Molto. Era bello quando la scelta del libro da leggere dipendeva dalla voce di un critico piuttosto che dalla pila in libreria.

Qual è stato, secondo lei, il più grande critico in Italia? 

Lei ama le gerarchie.

La penultima illusione (Feltrinelli) di Ginevra Bompiani

-No, assolutamente… È curiosità. È affezionata a qualcuno in particolare?

Alfonso Berardinelli è sempre stato un valente critico oltreché un mio caro amico, anche se le sue recensioni sono spesso molto dure…

Beh, dovrebbe essere così, altrimenti che critico è?

Non sono d’accordo. Penso che Alfonso, quando un libro gli piace, sia ancora più bravo. Una persona intelligente è ancora più intelligente, secondo me, quando dice bene che quando dice male. Perché parlare bene è più difficile.

Quali autori l’hanno delusa di più, magari anche umanamente? Perché?

Nessuno, che io ricordi. Non mi è mai piaciuto distinguere fra uno scrittore e la sua vita; anche se a volte è stato difficile, per esempio con Celine, scrittore che ho amato molto oltreché tradotto. L’ho amato tanto che non volevo credere che avesse fatto il delatore. Questa cosa l’ho capita meglio sentendo la sua voce su un disco. La sua voce fa paura, è gelida, infida. E poi, visto a che a lei piacciono i pettegolezzi alla Dagospia, le cito anche Quasimodo: umanamente non mi piaceva, non mi era simpatico, ma le sue poesie erano molto belle… Anna Maria Ortese, di cui sono stata in qualche modo amica, mi ha fatto vedere i sorci verdi… Ma deluso, mai.

Era una donna triste la Ortese?

Triste non è la parola giusta, sicuramente difficile. La sua amicizia me la sono sudata.

È mai stata attratta dal pensiero di destra? C’è qualche gigante destrorso, secondo lei?

No, mai. E nemmeno adesso che la destra ha preso nei confronti della lotta contro il Covid una posizione molto più ragionevole della sinistra, e più vicina alla mia, non sento affinità. Non credo alla critica delle discriminazioni da parte della destra (le ha inventate lei!): penso che la sua sia una contrapposizione politica all’atteggiamento prono assunto dalla sinistra nei confronti del Governo. Mi sento molto lontana da entrambe, ma non perché le equipari, ma perché credo che la Sinistra sia un’altra cosa dal triste spettacolo che oggi dà di sé! Mentre la destra è sempre quello che è, con qualche ricciolo in più o in meno.

Facciamo un gioco, Ginevra: se sul suo tavolo di editore arrivano i manoscritti di mostri sacri come Rebatet, Brasillach e Drieu la Rochelle, cosa fa? Li pubblica?

Come le ho detto, ho molto amato Céline. Ma non avrei pubblicato i suoi pamphlets antisemiti. Una cosa è la scrittura e un’altra la propaganda. La grande scrittura non è né di destra né di sinistra.  Anche se mi piace capire quello che unisce uno scrittore alla sua opera, non sono la stessa cosa; a volte lo scrittore si spreme tutto nella sua opera e quel che rimane di lui sono le scorie.

Però non ha risposto alla mia domanda: li avrebbe pubblicati, vista la loro insindacabile grandezza, perlomeno come scrittori? 

Ho risposto invece; ma lo farò più chiaramente. Se mi fosse capitato un bel libro inedito, lo avrei probabilmente pubblicato. Purché non fosse di propaganda, perché detesto la propaganda da qualsiasi parte stia: è profondamente impoetica e un editore letterario cerca la poesia. 

Si sente più borghese, aristocratica o, molto più semplicemente, proletaria?

E perché dovrei sentirmi proletaria? Non ho nemmeno figli! Spero comunque di non appartenere a nessuna di queste categorie.

Perché, secondo lei, la cultura di destra in Italia è sempre stata ai margini? Non pensa che, nella qualità del dibattito delle idee, avrebbe giovato anche alla sinistra?

Che cosa chiama la ‘cultura di destra’? Mi sembra un ossimoro…

Addirittura? Raymond Aron probabilmente l’avrebbe smentita palesemente…

Sì, era una battuta. Ho anche pubblicato il bel libro di Furio Jesi Cultura di destra. Ma penso che oggi comunque non ci sia una ‘cultura di destra’. Quanto a una ‘cultura di sinistra’, non è certo quella ufficiale.

Ginevra Bompiani, Andrea Zanzotto, sua moglie Marisa e Laura Barile a Pieve di Soligo

Perché fonda nottetempo? Aveva necessità di dimostrare che sapeva fare l’editore?

Che assurdità! Avevo 62 anni… Che cosa dovevo dimostrare? Avevo in mente una casa editrice per lettrici come me, che hanno il tempo per leggere e cominciano a portare gli occhiali, ma se li dimenticano da qualche parte. Ho cercato di rendere la lettura una cosa comoda e piacevole, senza cedere sulla qualità del contenuto. Il libro, in realtà, è un oggetto scomodo. Ho voluto dare importanza alla fisicità del libro, al corpo dei caratteri, all’impaginazione, alla qualità della carta…Volevo che le stesse caratteristiche si ritrovassero nell’oggetto libro e nel suo contenuto: leggerezza, chiarezza e mira alta.

C’è un libro pubblicato dalla nottetempo di cui va particolarmente fiera?

Di molti, forse di tutti. Ma in particolare fui molto fiera dei libri di Milena Agus, che nessuno conosceva e che portò economicamente a galla la casa editrice, con la sua candida e fantasiosa intelligenza; e del carteggio tra Ingeborg Bachmann e Paul Celan: ricordo che quando lo comprai, alla Fiera di Francoforte, gli editori mi fermavano per complimentarsi. Ne fui molto fiera.

Lei che lettrice è?

Una lettrice lenta, che si annoia facilmente. Sono sempre a caccia di libri da leggere con quella passione con cui leggevo a quindici anni. Ma non è facile, perché quei libri li ho già letti.

Ha mai sofferto, durante il suo percorso di emancipazione, per il nome che porta?

Sapevo di avere un nome conosciuto e tendevo a sfuggire a quel privilegio. Lo si può vedere anche nel film La notte di Antonioni, dove c’è una scena girata nella casa editrice di mio padre e dove – con Jeanne Moreau e Marcello Mastroianni, c’è tutta la mia famiglia.  Ma io sgusciai via, infatti mi si vede solo di spalle! Un atteggiamento abbastanza sciocco, direi.

Pensa di essere una donna ribelle?

Per ribellarti devi essere dentro a qualcosa, e io non sono mai stata dentro a niente, partito, gruppo, movimento. Indipendente, semmai.

Ha amato e apprezzato la Bompiani diretta da Elisabetta Sgarbi?

Elisabetta Sgarbi è molto brava, ma la nuova Bompiani era molto diversa da quella che conoscevo. Io ero legata alla Bompiani di mio padre, venduta nei primi anni Settanta…

Soffrì per tale scelta?

Moltissimo. Ricordo che l’indomani della vendita dovevo dare un esame di Letteratura italiana contemporanea. E il professore, che non ne sapeva nulla, mi chiese di Ottieri, Moravia, e tanti autori Bompiani. Fu difficile per me sostenere l’esame, tacendo su quello che era appena successo. 

In Sicilia c’è sempre questo dualismo tra Sciascia e Bufalino. La Bompiani ha avuto il grande merito di scoprire il grande Bufalino. Lei per chi parteggia?

Ho letto più Sciascia, a essere onesta. Bufalino l’ho frequentato poco. Mi sembrava che lo avesse scoperto Sellerio.

Cosa ha imparato dall’insegnamento?

A insegnare. Fondamentali sono stati i due semestri fatti in America.

Perché, cosa è successo in America?

Quando sono tornata in Italia dall’America, dove avevo insegnato alla Brown University, ho cominciato a dare agli studenti, all’inizio del corso, il Syllabus, cioè il programma che avremmo svolto durante l’anno, perché sapessero, prima di ogni lezione, di che cosa avremmo parlato e si potessero preparare. Le mie lezioni diventarono più tutorials che lezioni ex-cathedra. E siccome gli studenti erano moltissimi,  cominciai a dividerli in piccoli gruppi. Il mio obiettivo era quello di coinvolgerli e renderli attivamente partecipi alla lezione. 

Il grande George Steiner venne a Siena, se non erro, nei suoi anni toscani. Fu, per lei, un incontro imprescindibile?

Fu sicuramente un incontro importante. Erano molto belle le sue lezioni. E molto piacevole averlo a Siena in modo così familiare e disteso. Lo stesso successe con Noham Chomsky, ma non fui io a invitarlo.

Cosa ha rappresentato, per lei, Carla Lonzi?

Abbiamo creato, insieme a Carla Accardi ed Elvira Banotti, Rivolta Femminile, il primo vero movimento femminista italiano. Carla e io scrivevamo il Manifesto del movimento. Facemmo un bellissimo lavoro insieme. Due cose, però, non mi piacquero. La cacciata di Dacia Maraini, a cui mi opposi inutilmente; e l’annuncio di Carla Lonzi, quando arrivò una sera e propose la sua formula: sputiamo su Hegel. Pensavo che semmai si sputa sui viventi, non sui morti. Ma la cosa piacque molto alle donne del movimento, e così, dopo appena tre mesi, lasciai Rivolta femminile (e tornai a Parigi). Fu un movimento bellissimo (l’unico di cui feci mai parte), e molto innovativo. Scegliemmo la differenza e non la parità, cosa di cui sono sempre convinta. E fummo le prime a decidere di non fare entrare gli uomini nel movimento.

Perché Carla volle cacciare la Maraini? Cos’era successo?

Non fu Carla, fu tutto il gruppo. Se non ricordo male, volevano definire le donne come una ‘classe’ e Dacia si oppose.

Che rapporti ha avuto con il sesso? Di solo piacere? Conflittuale?

Ma figurarsi se rispondo a una domanda simile!

Non le fa pena il femminismo di oggi?

Beh sì, soprattutto quando difende l’utero in affitto. Mi pare la cosa più antifemminista che si possa fare. L’ultima trovata patriarcale per schiavizzare il corpo della donna.

Pensa di aver fallito in qualcosa?

Non vedo la vita come un’alternativa di successi e fallimenti.

Cosa rappresenta, per lei, il libro? Erotismo, esperienza, manipolazione cerebrale?

Conoscenza e immaginazione. Il libro è uno dei cibi più ricchi dell’immaginazione.

Quali autori l’hanno segnata in modo indelebile.

Tolstoij e Cechov, a quindici anni, mi hanno formata. E moltissimi altri lo fanno ancora.

Avrei detto i francesi…

I francesi sono arrivati dopo. A parte Dumas.

Cosa legge oggi?

Faccio fatica a trovare libri interessanti. Ma qualcuno c’è. Ultimamente mi sono piaciuti i racconti di Labatut, e Helgoland, e Augustus di John Williams, e Le donne a cui penso di notte di Mia Kankimäki. Al momento sto leggendo Il maestro e l’infanta di Alberto Riva..

Legge i giornali?

Non più: da quando c’è il Covid, c’è il monopensiero. Non mi interessa vedere dappertutto la stessa pubblicità. 

Per lei ha contato più l’amore o l’amicizia?

Conta sempre più l’amore, ma l’amicizia è stata importantissima, e lo è tuttora. Diceva Elsa Morante: per quanto grande sia un amico, c’è quel negretto che ti aspetta in fondo al Congo, e tu corri…

È mai stata schiava d’amore?

Schiava è una parola un po’ ridicola. Diciamo che quando mi innamoro davvero sono, ero, piuttosto arrendevole. Sono molto dipendente dalle persone e mi pare giusto dipendere gli uni dagli altri. Basta non volersi dominare.

Abbiamo cominciato questa intervista, partendo dalla Penultima Illusione. Quale sarà la sua ultima illusione?

Quella che racconterò dall’aldilà, anche se non credo che là si scriva.

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INTESTATO A: MELCHIONDA FRANCESCO

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