CAZZULLO, IL MARIOLINO CORSO DI VIA SOLFERINO
Aldo Cazzullo, langarolo doc nato negli anni Sessanta, è una delle quattro-cinque firme del giornalismo italiano. A differenza del suo maestro Giorgio Bocca, la sua penna non ha la ferocia, il fuoco, il sarcasmo o, ancora, la cattiveria del cuneese. Ma i suoi articoli, tanti, hanno il merito di farsi leggere. Qualcuno, quando i suoi libri finiscono nelle librerie e nella top ten dei più venduti, storce il naso; i detrattori, non pochi, lo definiscono commerciale. Il lettore, però, sommo e insindacabile giudice del successo o insuccesso altrui, checché se ne dica, lo apprezza. E, giustamente, lo premia. Leggendolo da anni, dapprima sulla Stampa e, ora, sul Corriere, questo provinciale, così legato alle sue origini, mi incuriosiva stanarlo. La sua scrittura un po’ mi ricorda quella del grande Edmondo Berselli: eclettica, profonda, colta, ma, allo stesso tempo, spensierata, proprio come gli anni Sessanta. E così, dopo un inseguimento durato in realtà poche settimane, ci siamo incontrati in un bar, a pochi metri da Piazza Bologna, in un pomeriggio ventoso. Ad essere sincero, non abbiamo passato molto tempo insieme – dovete sapere che il Nostro va sempre di corsa! – ma nell’ora che mi ha dedicato non l’ho mollato finché non rispondeva a tutte quelle che erano le mie domande, curiosità (numerose), e perplessità e dubbi. Con mia sorpresa, devo dire che Cazzullo, quando parla, non è sintetico, asciutto, secco. Pur essendo piemontese, ha la loquela e dialettica di un meridionale colto, curioso e godereccio. Quando cominci a solleticare la sua vita, è un fiume in piena, proprio come il suo amato Tanaro o Po, chissà. Dietro il suo viso chiaro, nascosto un po’ dai suoi occhiali da miope, si cela un uomo tutt’altro che gelido e distaccato. Se può, tende a nascondere i suoi umori e malumori, ma, come è successo nel mio caso, se lo si stuzzica a dovere (e come dovrebbe essere ogni volta che si prova a “confessare” qualcuno), ci mette poco a tirar fuori gli artigli. A differenza di tanti suoi onesti colleghi, la scrittura cazzulliana è sugosa, aneddotica, sempre piena di riferimenti a storie, uomini, libri, che, ovviamente, stimolano il lettore ad approfondire. Non è mai monotematico; se si leggono i suoi libri e articoli, non ci si imbatte mai in qualcosa di stantìo. La sua penna la si trova dappertutto: calcio, storia, recensioni, lettere, corrispondenze, viaggi, ricordi, interviste, musica. Con grande bravura, abilità e, perché no?, grande diplomazia, ha saputo navigare i mari tempestosi e ambigui di via Solferino, uscendone sempre indenne, con buoni voti da parte dei suoi numerosi direttori, e nonostante – diciamolo pure – i cambi e i defenestramenti e le girandole, lì, al primo piano dov’è collocata l’ambitissima stanza del Direttorissimo. E son sicuro che l’albese, fra qualche anno, e pur non raggiungendo forse, al Corrierone, la poltrona di monarca, di certo avrà ancora da raccontarci qualcosa… Sui libri o giornali, poco importa.
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Cazzullo, in un’intervista rilasciata anni fa a Sabelli Fioretti, ha detto: “Sono figlio di un bancario. Ma la figura centrale della mia famiglia era mio nonno macellaio, Aldo”. Perché? Cosa ha imparato da suo nonno?
Beh, sì, perché passandovi molto tempo, sono cresciuto con lui, dapprima nella sua bottega e, poi, nella sua piccola azienda, dove si lavoravano le carni. Non era l’Alba della Malora di Fenoglio – “Pioveva su tutte le Langhe. Lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sottoterra. Era mancato nella notte di giovedì l’altro e lo seppellimmo domenica, tra le due messe…” – ma, di certo, neanche quella che oggi tutti conosciamo, ricca e grassa. Nonno Aldo, dai racconti che mi faceva, andò a fare il garzone a casa di Amilcare Fenoglio, il papà di Beppe; e tra i suoi compiti, dopo aver portato a spasso a spalla un quarto di bue, c’era anche quello di accompagnare il piccolo Beppe all’asilo. Mi sono sempre chiesto cosa si dicessero i due…
Sì, ma cosa ha imparato da suo nonno?
Il valore del lavoro e del rispetto per gli altri. Era un uomo di animo gentile. Pensava in piemontese e aveva sempre in tasca un piccolo dizionario, per non sbagliare una parola in italiano.
Voleva fare anche lei il macellaio?
No, onestamente no. I miei genitori desideravano che io facessi il liceo classico; io, per spirito di ribellione, volevo iscrivermi ad Agraria. Nonno quasi se ne fece una mezza malattia…
Addirittura? E perché?
Voleva che io facessi il farmacista, perché ai suoi occhi il farmacista rappresentava il grado massimo della sua categoria, che era quella dei commercianti. In realtà, ho sempre saputo che volevo scrivere perché la scrittura mi affascinava. Ricordo che, alle elementari, scrivevo poesie e la maestra obbligava i compagni di scuola a impararle a memoria, e loro mi aspettavano fuori per picchiarmi. Facevano bene perché le mie poesie erano molto brutte.
Nasce in una famiglia piccolo borghese: che ragazzino era?
Solo, perché mio fratello è nato dopo 9 anni. Ero molto timido, e sempre frastornato perché costretto a cambiare città, paesini di continuo, perché papà, lavorando in banca, veniva trasferito di continuo. La storia, in quegli anni, ti entrava in casa, ti spaventava anche…
Perché?
Perché non avevo gli strumenti per capirla. Gli anni Settanta furono intensi e tremendi allo stesso tempo: ricordo l’attacco palestinese alle Olimpiadi del ’72, e, a seguire, la guerra del Kippur, la crisi petrolifera, l’austerity, la strage di Piazza della Loggia, l’Italicus, il sequestro Sossi e, per finire, il caso Moro. Quando chiedevo al nonno cosa stesse succedendo, avvertivo in lui una sorta di spaesamento perché pure lui, che era stato giovane ai tempi di Hitler, Stalin e Mussolini, non ci capiva un granché. E la solitudine degli anni adolescenziali poi l’ho sentita tantissimo anche nella maturità. La generazione precedente, quella del 68, era convinta che si potesse essere felici soltanto tutti insieme. Un’illusione. Ma la mia generazione era convinta che si potesse essere felici soltanto ognuno per proprio conto. Un’illusione pure questa.
Come trascorreva il tempo, in una cittadina triste, immobile e noiosa come Alba, seppur in cambiamento?

Ma Alba non è triste! I langaroli sono gente allegra. Un po’ strana: trifulau, vignaioli, giocatori d’azzardo, scrittori, suicidi… In dialetto piemontese “artista” non vuol dire pittore: vuol dire un personaggio estroso ma inaffidabile. Il gradino successivo è la “lingera”, quello che vive di espedienti. I langaroli sono molto diversi dai torinesi. I torinesi sono inquadrati: militari, operai, comunisti, preti sociali. Noi siamo irregolari.
Come si è ritrovato, poi, a fare il giornalista? Non aveva di certo il sacro furore della penna…
Amavo scrivere. Ho iniziato a 17 anni a lavorare in un giornale della sinistra albese, il Tanaro. Ma la sinistra ad Alba quasi non esisteva. Anche gli operai votavano democristiano nelle Langhe. Il Tanaro affogò prestissimo nei debiti. Io passai al settimanale diocesano, la Gazzetta d’Alba, che prosperava e prospera dal 1870… A ventun anni mi trasferii a Milano per fare la scuola di giornalismo. Dopo un anno mi assunsero alla Stampa. Erano tempi, giusto dirlo, in cui era più facile entrare nei giornali… L’impatto con la redazione fu duro: stavo al giornale tutto il giorno fino alle 11 di sera e, a volte, fino all’una di notte. Quando uscivi dal giornale, a quell’ora, Torino era deserta, per nulla viva: c’era una sola pizzeria aperta, ogni tanto si sparava tra i tavoli, regolamenti di conti tra pregiudicati. Ingenuamente, immaginavo i giornalisti immersi in volute di fumo a discutere di massimi sistemi… Invece, era un posto in cui si faceva la schedina, come in tutti gli uffici italiani.
Che Torino era?
Era una Torino dura e viva, per dirla con Giorgio Bocca. La città si stava avviando alla deindustrializzazione, però tutto girava ancora intorno alla Fiat. Più che di operai, era una città di prepensionati e cassaintegrati, e, quando mi capitava di passeggiare in centro, li vedevi seduti su una panchina, persi e demotivati.
Quali sono stati, a parte Rossella, sempre poco amato tra i giornalisti, i direttori peggiori che ha avuto finora?
In realtà, sono sempre stato molto fortunato con i direttori: Gaetano Scardocchia, assumendomi alla Stampa, mi ha dato la possibilità di fare questo bellissimo mestiere; poi ho avuto Paolo Mieli, uomo di una cultura e di un’intelligenza superiori; Ezio Mauro, grandissimo lavoratore e ottimo direttore. Ovviamente, Marcello Sorgi, che mi chiese di trasferirmi a Roma. Ma, per onestà intellettuale e riconoscenza, non posso dimenticare Stefano Folli, che mi volle al Corriere, Ferruccio De Bortoli, Luciano Fontana, con cui ho un ottimo rapporto. Con Carlo Rossella, sì, devo ammetterlo, non c’è stata molta affinità. Era un personaggio simpatico, anche affascinante, ma poco serio.
Che scherzo le fatto il buon Carlo?
Io avevo il sogno di andare a fare il corrispondente a Parigi, città cui sono legato in modo particolare. Ogni anno, in sostituzione del corrispondente che andava in vacanza, seguivo, per un mese, le vicende francesi. Sembrava sempre che non succedesse nulla, poi, all’improvviso, mi trovavo sempre a dover raccontare vicende intense, drammatiche: penso alla morte di Lady Diana, le bombe algerine, o il referendum per il trattato di Maastricht… Insomma, quando Rossella mi incrociava nei corridoi della redazione, mi prometteva sempre una sede estera, di solito Parigi. Ma il culmine fu quando si liberò la sede di Bruxelles: propose, l’uno all’insaputa dell’altro, a me, Zatterin e Manacorda, di tenersi pronti. Poi mi disse: Aldo, dovresti imparare un po’ di tedesco, preparati per Bonn. Poi, quando portarono la capitale a Berlino, Berlino. Insomma, tante chiacchiere… Osservandolo da vicino, ho capito che per Rossella dirigere un giornale significava gestire equilibri, favori… Un’idea di giornalismo lontanissima dalla mia.
Quante maschere ha Aldo Cazzullo? Il suo viso sembra sempre così impertubabile…
Non credo di indossare maschere. Il mio viso è abbastanza leggibile. Sono uno che si arrabbia, uno sanguigno, direi. Non sono un animale a sangue freddo, ecco.
E’ rancoroso?
No, sono permaloso.
Quanti amici ha nella sua vita?
Avendo girato molto quand’ero bambino, direi pochi. Il mio più caro amico si chiama Lorenzo, e non fa il giornalista. Con lui condivido la passione per la storia e lo sci. Nel giornalismo, invece, Fabrizio Roncone, con cui ho scritto anche un libro. Ma non posso dimenticare, allo stesso tempo, Filippo Ceccarelli, Pigi Battista, persone che mi hanno insegnato molto. E tra i direttori, invece, Marcello Sorgi e Stefano Folli. Con Mauro, invece, è un po’ più difficile essere amico perché è un uomo asciutto, distanziante.

Come nasce la sua amicizia con Giampiero Mughini? Perché sentì la necessità di conoscerlo?
Giampiero Mughini è una delle prime persone che andai a trovare, quando mi trasferii a Roma per lavoro, oltre ventidue anni fa. Aveva scritto un libro sugli anni Settanta che mi era piaciuto molto, «Il grande disordine»; siccome ne stavo scrivendo uno su Lotta Continua, avevo voglia e curiosità di incontrarlo. In lui, come nei suoi libri, ho sempre trovato una profonda compassione per le sofferenze degli uomini, e un senso di ammirazione per la grandezza e la nobiltà d’animo che è una delle attitudini che mi ha trasmesso mio padre. Il massimo per me è Albert Sabin che rinuncia a brevettare il vaccino contro la polio perché “non appartiene a me ma all’umanità, è il mio regalo ai bambini di tutto il mondo”. Mi commuovo ogni volta che ci penso.
C’è qualcosa che non condivide di Mughini?
Tifiamo la stessa squadra, la Juventus, ma io a differenza di Giampiero ho un giudizio assolutamente negativo su Moggi.
Scrive, a volte, libri mainstream, risponde tutti i giorni ai lettori del Corriere, viaggia, verga editoriali, ricordi.
Non mi riconosco come scrittore di libri mainstream. Alcuni sono libri di successo, è vero. Ma spesso vanno controcorrente. Tanto per fare degli esempi: nel 2010 ho pubblicato “Viva l’Italia!” sulla difesa del Risorgimento, che è quanto di più fuori moda rispetto alla vulgata politica corrente; “Possa il mio sangue servire” sulla Resistenza, oggi molto denigrata; “Basta piangere”, contro il piagnisteo che è un po’ il tono medio del nostro tempo.
E’ drogato di lavoro? E’ compulsivo?
Sì, vero, lavoro tanto. Ma ho la fortuna di fare una cosa che mi piace, e, quindi, non sento il peso o la fatica di lavorare tanto, nonostante non sia più così giovane. La cosa bella de giornalismo è che un lavoro che coincide con la vita: cosa pretendere di più?
La sua presenza, così strabordante, non potrebbe essere ancor più apprezzata, con uno po’ di assenza?
Ci penserò, e terrò conto del suo consiglio. Ma tenga presente che in tv non vado quasi mai, se non a parlare dei miei libri. Quelle poche volte che mi invitano, vedo sempre con sollievo la fine della trasmissione.
Anche lei crede alla sciocchezza montanelliana: il lettore è l’unico padrone del giornalista? Chi è il suo padrone, Cazzullo?
Non penso sia una sciocchezza quella che ha detto Montanelli, anzi. Non penso di avere padroni, ma sono assolutamente consapevole che al Corriere della Sera c’è un editore. Rispetto a qualche anno fa, abbiamo la fortuna di non avere più una proprietà frastagliata, coinvolta in tanti interessi e ambiti della vita economica del nostro Paese. Oggi abbiamo Cairo, che trae i suoi guadagni dall’editoria. Alla fine, checché se ne dica, è il lettore che ci dà da mangiare…
E come, Aldo, sentiamo?
Beh, semplice: comprando il giornale e abbonandosi al sito… Poi, è vero, ci sono giornalisti o editori che si appoggiano alla politica, ancora troppo pervasiva in Italia, cosa preoccupante e che non mi piace affatto. Per usare una formula di Ezio Mauro: noi non dobbiamo essere pregiudizialmente contro il Palazzo; ma dobbiamo starne fuori.
I giornalisti italiani sono molto egocentrici e autoreferenziali. Lei per chi scrive, in primis? Per sé stesso?
Si scrive sempre per un pubblico. Non siamo letterati che quando l’onda increspa il lago si mettono al tavolino a scrivere. Si va in giro, si parla con la gente, e si scrive.
Al Corriere cambiano direttori, proprietà, consigli di amministrazione, ma Aldo Cazzullo è sempre sulla cresta dell’onda. E’ solo bravura o ha la grande capacità di galleggiamento e posizionamento?
Sono giudizi che possono dare solo i lettori. E poi al Corriere c’è un sano principio…
Addirittura? Cioè?

Che in prima pagina finiscono in tanti. Non è un giornale per solisti, ma una comunità in cui la palla gira. Il giornale si fa insieme, ed è giusto che sia così. Poi certo riconosco di avere la possibilità e la fortuna di potermi occupare di vari argomenti.
Sovente, nella girandola delle poltrone, il suo nome è spesso associato a qualche poltrona di direttore. Chi è che, al momento opportuno poi, la cassa dalla lista? Se l’è mai chiesto?
Be’, qualche no l’ho detto. E forse è stato una fortuna.
Per lei o per i lettori?
Chi può dirlo? Certo per me.
In quale giornale, finita l’esperienza al Corriere, vorrebbe andare a lavorare?
Ho un ricordo bellissimo dei miei quindici anni alla Stampa, ma, in tutta onestà, vorrei chiudere al Corriere, che un po’ è anche casa. Renzo Piano dice che si deve morire nel cantiere. Per un giornalista, vuol dire morire scrivendo o andando in giro per il giornale…
Andrebbe mai a dirigere La Verità, Libero o il Giornale? Perché no?
Il problema non si pone perché non me lo chiederebbero…
E se, invece, glielo chiedessero?
Ma no, stia tranquillo, non lo faranno…
E’ più ambizioso o arrivista? Sembra molto feroce…
Arrivista per niente. Ambizioso sicuramente, e non ci vedo nulla di male.
Si è mai sentito qualche volta, al mattino, guardandosi un po’ allo specchio, una sorta di Bel Ami del giornalismo italiano?

Assolutamente no! Nessuno mi ha regalato nulla. Quello che mi sono conquistato non è piovuto dal cielo in cambio di qualcosa. I lettori te li conquisti con il lavoro e la fatica, e scrivendo cose interessanti.
Quante volte le è capitato di adulare un potente?
Mai, assolutamente mai! Non ho mai chiesto nulla a nessuno. Al massimo, ho potuto provare stima. Né farò mai politica.
Chi sono, oggi, secondo lei, i più grandi leccapiedi tra i giornalisti?
E’ vero che non godiamo di ottima fama in questo periodo, ma non penso ci siano oggi grandi leccapiedi in Italia; sicuramente ci sono giornalisti che, lavorando a stretto contatto con la politica e con il potere economico, a volte hanno la tendenza di mettersi al servizio di qualcuno.
Nei suoi articoli, raramente si scorge un vero graffio, una scorticatura profonda. Come mai la sua penna è sempre così equilibrata? E’ pavido? Vigliacco?
Nessuno, dinanzi ad una domanda del genere, le dirà mai, Francesco, sì, sono pavido o vigliacco! Ho scritto tantissimi articoli critici, per ricordare solo una vicenda ho litigato con Marine Le Pen alla vigilia del ballottaggio del 2017, stando sempre attento, però, a non offendere nessuno. Non mi riconosco nel ritratto che mi sta facendo…

Nel paese di Dante e delle centinaia di dantisti, o pseudo tali, anche lei si è cimentato con l’opera del Sommo Poeta. Ne sentiva proprio la necessità? Cosa l’ha spinta a scrivere un libro sul Fiorentino?
Perché nei libri mi sono sempre occupato dell’identità italiana, e, quindi, mi sembrava inevitabile avvicinarsi a Dante, perché è proprio con lui che nasce la nostra identità, a partire dalla lingua…
Il libro sull’inferno – “A riveder le stelle” – ha sbancato, oltre 250mila copie vendute, se non erro… Immaginava di poter fare un botto simile?
No, per niente. Ogni volta che faccio previsioni sulle vendite, non c’azzecco mai!
Prima mi ha detto di essere un uomo molto permaloso: da dove nasce, secondo lei, questa sua propensione?
Perché metto tutto me stesso in quello che faccio, e le cattiverie o le critiche gratuite mi fanno soffrire.
Come reagisce, allora, alle critiche che le fanno quando scrive i libri?
Appunto, ci soffro. Quasi come se mi criticassero i figli.
C’è qualcosa che la ferisce in modo particolare?
Il compiacimento di chi gode a farti del male.
Quale è stata la più grossa topica da che fa il giornalista? Se la ricorda una lavata di capo da parte di uno dei suoi direttori?
Avevo 23 anni e avevo fatto un articolo su una nuova cura promettente contro il cancro. Mi chiamò Gaetano Scardocchia, all’epoca direttore della Stampa, e mi fece una cazziatone terribile, dicendomi che non bisognava mai dare false speranze ai parenti dei malati. Fu una lezione molto utile, vale a dire avere il massimo rispetto dei lettori.
Come scrive Hermann Broch, Virgilio, dopo averla completata, vuole distruggere le cinquecento pagine dell’Eneide. A lei, è mai capitato di voler bruciare le pagine di qualche suo libro?
Il suo è un paragone troppo alto. Detto ciò, non distruggerei nulla di quello che ho scritto.
Bocca e Bettiza sono ancora sul mobiletto come fossero delle reliquie sacre? Cosa ha imparato da loro?
Il Provinciale di Bocca e l’Esilio di Bettiza sono tra i libri che stanno ancora sul mio comodino. Leggendo Bocca capisci che ha sparato, mentre se ti inoltri nella scrittura di Bettiza capisci che ha dipinto, perché era un pittore. Bocca è secco come una fucilata; Bettiza, invece, riesce a rendere affascinanti persino le descrizioni delle facce o dei personaggi che, di solito, trovo noiosissime.
E Montanelli dove lo colloca?
Indro Montanelli è stato il più grande giornalista della storia. Da giovane non condividevo le sue idee politiche. Ora le capisco meglio.
Chi sono i talenti giornalistici della sua generazione? Ce n’è qualcuno che apprezza in modo particolare?
Roncone, come le dicevo, Concita De Gregorio…
La De Gregorio?! Non pensa si sia un po’ imbolsita?
No, anzi, è un gran talento, soprattutto quando fa la cronista, quando racconta una storia.
E poi?
Luca Telese, Marco Imarisio, Gaia Piccardi…
Quale talento ruberebbe ad un suo collega, se potesse?
Di Massimo Gramellini, che è anche un grande amico, apprezzo molto il dono della sintesi. E, poi, Antonio Polito, che considero il miglior editorialista italiano perché riesce a dire una cosa in modo molto netto, senza essere mai superficiale.
Da piemontese, o, meglio, langarolo, quali sono, secondo lei, i più grandi scrittori piemontesi?
Per fortuna ne abbiamo tanti: Fenoglio l’ho amato molto, anche più di Pavese; Beppe era un outsider, provinciale, nell’accezione migliore del termine; Pavese, invece, era il signore dell’Einaudi, nonostante nel suo diario avesse scritto cose abbastanza spaventose su fascismo e nazismo. E poi, Arpino, Natalia Ginzburg, Italo Calvino che, pur essendo ligure, era di formazione torinese… La scuola piemontese, però, non vale quella siciliana: Verga, De Roberto, Capuana, Pirandello, Sciascia, Vittorini, Consolo, Bufalino, sino a Camilleri…
Si piace come uomo?
Non amo rivedermi, soprattutto quando vado in tivù.
E’ più fedele agli amici o alle donne?
Di donne preferisco non parlare. Anzi, le dico una citazione abusata: parlo con le donne, non delle donne.
Le fa più gola il danaro o una bella donna?
Nulla può essere più prezioso di una donna. Ho sempre sognato di avere una figlia femmina, ed è un sogno realizzato; anche se amo allo stesso modo, cioè moltissimo, il mio figlio maschio, che si chiama Francesco, come lei.
Che rapporto ha con i soldi? Ne guadagnerà tanti, immagino…
Sono un po’ spendaccione. Guadagno il giusto: tenga conto che dalle vendite dei miei libri intasco solo il quindici per cento. Non sono certo ricco, nonostante lei sostenga il contrario.
E come li spende?
Adoro i viaggi, mangiare, e far stare bene le persone che mi stanno vicino.
E’ goloso, quindi?
Sì, ma oggi sono costretto a contenermi…
Anche lei, come Giorgio Bocca, pur guadagnando molto bene, ha paura di finire in miseria?
Tolga il “molto”. I soldi i giornalisti li fanno con la tv, non con i libri. In generale, tra i veri ricchi molti stanno nei paradisi fiscali, e i contribuenti onesti vengono tartassati. Quindi le preoccupazioni di Bocca non erano infondate. Anche se la mia vera preoccupazione è per l’impoverimento della società. Questo aumento dei prezzi è una bomba sociale.
Cosa ha imparato dai libri?
Che la storia, in realtà, non si ripete mai, e che nulla ritorna. Come canta De Gregori: un giorno finalmente accetteremo il fatto come una vittoria…
Ha detto a Mughini, in una intervista, che non ha letto Lucien Rebatet, lettura imprenscindibile per molti, a partire dal sommo George Steiner. Quali sono, allora, per lei, gli autori da leggere a tutti costi?
Confesso che non sono un grande amante della narrativa; preferisco la saggistica, pur non sfuggendomi il carattere universale della letteratura. Tornando alla sua domanda, le dico subito: “I dolori del giovane Werther” di Goethe, Dante e Manzoni ovviamente, e le poesie di Pessoa e Kavafis. Da ragazzo ho molto amato Ungaretti, poi crescendo ho scoperto che Montale è ancora più grande… In realtà, in Italia non abbiamo una grande narrativa, soprattutto se paragonata a quella francese o russa. Ricordo una famosa battuta di Silvio Orlando nel “Portaborse”, che faceva più o meno così: mentre lui (Manzoni) per cinquant’anni scrive e riscrive I promessi sposi, Balzac infila un capolavoro dietro l’altro, Melville scrive l’immenso Moby Dick e Dostoevskij… Be’, Dostoevskij scrive: L’idiota, Delitto e castigo, I fratelli Karamazov…”
Qual è stato il momento peggiore della sua vita?
Gli anni dell’università, prima di cominciare la scuola di giornalismo. Sono stati anni di smarrimento, di confusione, perché fino al liceo avevo la sensazione di sentirmi protetto, come se i binari della mia esistenza fossero segnati. Poi, una volta uscito dai confini casalinghi, e iniziata l’avventura torinese, beh, qualche difficoltà l’ho incontrata. E poi, come le ho detto anche prima, Torino, in quel periodo, non era una città molto facile, accogliente, tutt’altro. Ho sofferto, per essere franchi, la solitudine generazionale, dove l’io, anche nei momenti di svago, come poteva essere la discoteca, la disco-music, aveva sempre il sopravvento sul noi. Persino ballare si ballava da soli.
Qual è stata la colonna sonora della sua vita?
I cantautori italiani: De Gregori, Venditti, Guccini, Battiato, Vecchioni, Baglioni, Lucio Dalla. E poi Vasco e Ligabue. Il fatto di averli poi conosciuti e intervistati è stata tra le più grandi soddisfazioni della vita.
Come nacque la sua amicizia con Dalla?
Andai a intervistarlo poco prima che compisse 60 anni. E andai con l’idea di fargli confessare la sua omosessualità. Ero giovane, portare notizie, creare dibattito, discussione, fare casino. Quando arrivai a casa sua, Lucio mi fa: guardi, non ho nessuna confessione da farle. Poi, nel tempo, diventammo amici, e cominciammo a frequentarci. A distanza di anni – eravamo alle Tremiti – ritornando sul tema dell’omosessualità, Lucio mi disse che rifiutava etichette perché, nel tempo, aveva amato sia gli uomini che le donne.
Anche lei, come il suo amico Lucio Dalla, è un po’ bugiardo?
Lucio Dalla non mentiva, colorava: rendeva più bella e attraente la realtà. Tendo a essere una persona sincera, anche perché, oggi, con la rete, verrei subito sbugiardato. Alzi la mano chi non ha mai detto una bugia…
