Inseguivo Stenio Solinas dallo scorso autunno. Dopo aver delibato “Atlante ideologico-sentimentale” e il monumentale “Supervagamondo”, mi sembrava doveroso oltreché giusto provare a raccontare uno degli ultimi mohicani della carta stampata.
Leggendolo e vedendolo de visu, si può dire, senza tema di smentita, che Solinas – un sardo-calabro aspro – faccia parte della schiatta degli intellettuali imprestati al giornalismo.
Per cultura, storia, postura, sprezzatura, Solinas non ha nulla del giornalista classico, anzi. Non è affamato di scoop, non insegue spie. Non cerca informatori. Tutt’altro.
Me lo immagino, soprattutto negli anni in cui diresse le pagine culturali del primo Giornale feltriano, a scovare, segnalare autori, o, ancora, a fare il controcanto alla cultura de sinistra, soprattutto quella più barricadera e fanatica.
Milanese d’adozione, dopo essere cresciuto negli anni del terrorismo a Roma, approfitto di una sua capatina romana, sempre più sporadiche, per interrogarlo e farmi raccontare cosa si prova ad essere, da sempre, sulla rive droite della nostra cultura, e, soprattutto, quando lo stare nell’universo conservatore era da considerarsi blasfemo. Controproducente.
Con il sigaro in mano, mi attende seduto, in una sorta di chiostro, dalle parti di via Garibaldi. Più che un albergo, sembra un’oasi. Siamo ai piedi del Gianicolo, ma …