Roberto D’Antonio

Roberto D’Antonio non è un “Figaro” qualunque. Le sue mani, piccole, sono, nella città Eterna, una reliquia sacra. Osservandolo da vicino, sembra una sorta di Papa della vanità. Nel cuore del potere capitolino, ogni mattina, accese le luci del suo salone, infiamma, con creatività e ansia, con insuperabile maestria, il grande falò della mondanità, delle relazioni che contano e dell’embrassons-nous.  La sua vita, a sessant’anni suonati, è un coacervo di contraddizioni, cadute e resurrezioni. Come tutti i provinciali, Roberto D’Antonio ha la pelle dura. Nonostante il successo e la visibilità internazionale, le centinaia di prime pagine su tutti i giornali, in lui restano smalto, curiosità, nonché le classiche paura di un ragazzo qualsiasi.

A differenza di Lucien de Rubempré – personaggio balzachiano di Illusions Perdues – “Robertino sette bellezze”, come affettuosamente lo chiama Roberto D’Agostino, non si è fatto corrompere dalle lusinghe del potere, tantomeno dai soldi. Nelle ore trascorse insieme, non ho scorto punte di cinismo o disincanto, tutt’altro. Seduto nella camera da pranzo, è sembrato un Divo, ma non nell’accezione di Paolo Sorrentino. I suoi passi, felpati, sono delicati, quasi non si avvertono. Come un gatto melanconico, il Divus si ritrae, fugge dai …