Ho conosciuto Mattia Feltri nel lontano aprile del 2008. Porco mondo, son passati 13 anni! A ripensarci, un’era geologica. Qualche settimana prima, misi piede alla Stampa per la prima volta, arruolato come stagista. Feltri, dalla sua minuscola stanza e sotto la supervisione severa e implacabile, seppur distante, di Giulio Anselmi, dirigeva la stramba e simpatica redazione romana. In quella primavera, dalle parti di via Barberini, in una serata quasi estiva, assistemmo all’ultimo exploit di Berlusconi e al tramonto definitivo di Bertinotti, il parolaio rosso tanto sbeffeggiato – e giustamente, aggiungerei! – da Giampaolo Pansa. Mattia non era più il golden boy del giornalismo italiano. Era lapalissiano che tutte quelle responsabilità piovutegli addosso lo stavano cambiando. La leggerezza e l’essere scanzonato, il candore che l’avevano accompagnato nella sua stagione al Foglio, avevano ceduto il posto ad un impegno oneroso e di prestigio che lo teneva incollato 12-13 ore al computer o al telefono con gli inviati o, ancora, con il Direttorissimo che, da Torino, chiedeva, pretendeva, esigeva, e che, magari alle 9 di sera, quando la cena era pronta, ribaltava il giornale e – Dio santo! – si doveva ricominciare daccapo.
Ecco, Mattia Feltri, l’ho conosciuto in questo frullatore …