Giulio Anselmi è stato, a parer mio, l’ultimo, grande monarca del giornalismo italiano. Un sovrano duro, severo, altero, a tratti spietato, e poco incline all’embrassons-nous. La prima volta che ho incrociato il suo sguardo risale all’aprile 2008. Questo genovese indurito subito dalla vita, era sulla plancia di comando della Busiarda, come i piemontesi di un tempo chiamavano la Stampa, già da qualche anno.
Ero l’ultimo degli ultimi: stagista imberbe e idealista. Nello stanzone che occupavo insieme ai notisti politici e di cronaca – Magri, Martini, Grignetti, Masci – nella fu storica sede di via Barberini, il nome di Anselmi ricorreva sempre: il direttore vuole, il direttore chiede, il direttore mi ha detto di partire. Per me, invece, sembrava irraggiungibile, quasi una figura mitologica. Ogni tanto, trafelato, dal suo stanzino disadorno, all’ora di cena, ci raggiungeva il capo della redazione romana dell’epoca, Mattia Feltri, con le bozze del giornale magari già pronte. Il direttore – diceva – non è convinto di questo pezzo: bisogna rivederlo. Una mattina, ricordo, quando il giornale dormicchiava ancora – di solito si animava intorno alle 15 -, incrociai lo sguardo di Anselmi per pochi attimi. Mi guardò, accennò ad un timido sorriso …