Di Minoli sappiamo tanto, forse tutto. Presentare la sua cinquantennale carriera televisiva – passata dall’analogico al digitale – così come i suoi successi, i suoi capitomboli, le sue idee, è opera vana. Inutile. Quando, mesi fa, poco prima dell’estate, l’ho cercato, quello che mi premeva, in realtà, era altro. Sapere e scoprire qualcosa in più di Giovanni, dei suoi pensieri, delle sue origini, dei suoi dolori, dei suoi amori, e dei suoi errori. E così, in un sabato ancora caldo, afoso, e nonostante i ricordi delle vacanze siano ormai sempre più sbiaditi dal tempo che scorre e cancella e obnubila, raggiungo Giovanni Minoli nel suo eremo, dalle parti di Piazza Navona. Superati i convenevoli della presentazione, ci sediamo nel suo salotto-studio, con un grosso televisore – poteva mancare? – a farla da padrone. Smessi i panni del conduttore, del manager, dell’ideatore di programmi, e abbandonati tutti gli orpelli borghesi atti a ricevere gli ospiti, soprattutto quando non si conoscono, Minoli ha lo sguardo sereno, pacato, sorridente; i suoi occhi azzurri – vispi, seducenti, vivaci – hanno il guizzo dell’uomo che vuole ancora fare, incidere, creare, partecipare, essere nella mischia, contare.
Nelle quasi tre ore di chiacchierata, questo torinese …