Lo dico subito, per sgomberare il campo da ogni dubbio: la confessione – sì, perché di questo si tratta – con Ginevra Bompiani non è stata una passeggiata, né tantomeno un incontro dinanzi a una tazza di tè con dei biscottini di pasta frolla; piuttosto un match tra pugili desiderosi di darsele di santa ragione, senza mai tirarsi indietro, anzi. Lontani anni luce, io e lei, ma, allo stesso tempo, curiosi di scoprire e criticare le diversità l’uno dell’altro. L’idea di incontrarla nasce quando, smarrita la sbornia natalizia, sui banchi, ogniqualvolta entravo in libreria, il mio occhio, sovente, cadeva su un memoir. Dopo qualche titubanza, legata probabilmente al titolo – forse poco ficcante ai miei occhi – decisi comunque di acquistarlo. E così, dopo essermelo delibato voracemente, nelle settimane successive alla lettura di Penultima Illusione, cresceva, dentro di me, la voglia, oltreché la curiosità, di incontrare vis-à-vis, Ginevra Bompiani, una delle ultime signore – milanese, come ha tenuto a ribadirmi – dell’editoria italiana nonché accademica di lungo corso.
Il libro – sugoso, snob e ricco di aneddoti – mi aveva suscitato una voglia matta di provocare. Il mio intento era lapalissiano: provare a tirar fuori qualcosa di non detto, scorticare, litigare, fomentare, in …