Giancarlo Dotto

Nelle quasi due ore trascorse nella sua casa, in Prati, a poche centinaia di metri dal Tevere, nel cuore del Foro capitolino, Giancarlo Dotto è parso ai miei occhi come un corsaro. Ancor prima della scrittura e della parola, un corsaro della vita. La sua esistenza non è mai stata lineare, piatta, geometrica, scontata, tutt’altro. E mi sembra, per quello che ci siamo detti in questa confessione, che Dotto, nell’ottovolante della vita, non se la passi affatto male. Anzi. A parte le origini (venete), il colore del suo viso, il modo di camminare, la malinconia, il carattere e una certa indolenza, mi sono sembrati levantini, proprio come levantino era il suo Maestro, indiscusso, amato e “odiato”, Carmelo Bene.

Teatro, sport, televisione, giornali, sono stati i suoi territori esplorati e vissuti, alcuni dei quali visceralmente, a suggellare una sorta di nomadismo intellettuale. La voracità e curiosità, probabilmente, così come la paura della miseria, sono stati le molle che gli hanno permesso di uscire dall’anonimato e dagli stenti, marchi di fabbrica quasi sempre ineliminabili negli Ultimi. Seguire le traiettorie esistenziali di Dotto, nella nostra chiacchierata, è stato facile e difficile allo stesso tempo; facile perché la sua franchezza e onestà …