Dopo aver letto il mastodontico La Guerra dei Trent’anni – ponderoso saggio su Mani pulite – mi dissi che era giunto il momento di stanare Filippo Facci, e provare a raccontarlo a modo mio. Mi incuriosiva il suo modo di parlare, ma, soprattutto, quello che scriveva.
Ma per vederlo e provare realmente a capire chi fosse, non bastava una telefonata o, come è in uso volgarmente ora, parlargli grazie ad un video. Orrore! Giammai!
Sapevo, inoltre, che, dinanzi ad un suo sì, dovevo armarmi di bagaglio e registratore, e raggiungerlo a Milano, anzi, Milano 2. Sì, avete letto bene, Milano 2, il teatro delle prime ricchezze berlusconiane.
Quando gli scrissi per proporgli l’intervista, la sua risposta fu lapidaria: “Intanto verifico se sei un coglione. Se non lo sei, non se parla“. Mi dissi: è fatta! È il suo modo per dirmi di sì.
In una Milano calda, afosa e appiccicosa, lasciate per qualche ora le chiacchiere romane, ci diamo appuntamento dalle parti di Corso Buenos Aires, una via commerciale, piena di negozi tutti uguali e, sinceramente, tristi.
Mi raggiunge con una jeep, aria condizionata come se fossimo nella più bollente Terronia. Facci non è un uomo da tanti convenevoli e formalismi, …