Il primo contatto con Filippo Ceccarelli avvenne al principio di ottobre dell’anno scorso. Gli scrissi una mail per sondare e solleticare un po’ la sua curiosità. Avevo voglia di incontrarlo e “confessarlo”. La sua carriera, il suo lavoro di immenso archivista, le sue manie e i suoi tic, avevano acceso il mio interesse. La sua risposta, ricordo, fu immantinente, e positiva. Lo chiamai subito, senza aspettare: dall’altra parte della cornetta trovai un uomo curioso, indagatore. Voleva capire chi fossi, e, soprattutto, come mai fossi così tanto interessato alla sua vita. Dopo quasi un’ora di telefonata, mi disse:
”Francé, famola sta intervista, ma aspettiamo che passi questa seconda ondata de Covid… C’ho paura, non vojo finì in ospedale!”
Nel frattempo, alla seconda ondata ne sono succedute altre due, tre… E poi l’Italia a colori: gialla, rossa, bianca, arancione. Un groviglio di regole, codicilli, imposizioni, coprifuoco, mascherine. Ogni volta che lo chiamavo al telefono, le nostre chiacchierate erano lunghe, lunghissime. Parlavamo di giornali, giornalisti e di amenità; speravo sempre che mi dicesse: Francé, so pronto! Vieni a casa e intervistami…Niente, al solito mio ritornello: beh, allora, quando ci vediamo?, tergiversava, temporeggiava:
“… aspettamo ancora un po’… Nun ce core nessuno”
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